Rumore Bianco. DeLillo e la paura della paura di morire

Rumore Bianco. DeLillo e la paura della paura di morire

Recensione di Marco Ponzi. In copertina una foto dell’autore di “Rumore bianco” di Don DeLillo, edizione 1985

Si può parlare di un libro che non si è sicuri di aver compreso del tutto? Leggendo “Rumore bianco”, romanzo del 1985 di Don DeLillo, mi sono domandato a ogni pagina dove mi volesse condurre l’autore.

DeLillo usa numerosi appigli per indurre il lettore a porsi domande: lo incuriosisce con questioni scientifiche, culturali, filosofiche, commerciali, storiche; qualsiasi cosa è utile a tenerlo incollato alla pagina, con la speranza che il mistero si riveli.

Non si tratta nemmeno di un mistero, a dire il vero. Si tratta di una realtà trasfigurata in una storia che definirei banale ma che, come molte banalità, mostra il bene e il male della vita… e della morte. Perché, a detta di molti, questo è un libro sulla paura di morire.

Credo invece che non sia solo questo. O meglio, a me pare un libro sulla paura della paura di morire. Non è tanto la morte che spaventa, ma la paura di avere paura. Ma nel racconto si prospetta una soluzione: una pastiglia che anestetizza questo terrore, un farmaco segreto di cui non si conosce la vera efficacia.

Da un certo punto in avanti, l’autore insiste su questo concetto e lo fa attraverso il “parlato”. È un libro in cui i personaggi parlano della morte ma non è un libro in cui si racconta di una morte così imminente. La morte viene ridotta a “dialogo” ma non c’è qualcuno che parli con essa, perché è lontana, è solo un pensiero di un pensiero; si capisce che non è reale.

Ho avuto la percezione che questo terrore raccontato sia stato descritto in modo distaccato per somigliare alla società americana, in cui proprio il distacco serve per non farsi sorprendere da morti procurate da stragisti appena usciti dal supermercato con un fucile.

“Rumore Bianco” mi è sembrato più che altro una lunga riflessione sulla contemporaneità americana, del tutto attuale perché pregna di azioni e pensieri mortiferi insiti nel modo di pensare, e di come quella società sia propedeutica alla morte.

Lo percepisco come un atto di accusa verso l’America che si regge su inganni e ipocrisie, tutti volti a rassicurare chi è già destinato a morire, dato che la legge prevede la possibilità di poter procurare la morte, basti pensare a come sia stato semplice sganciare due bombe atomiche, o comprare un’arma senza particolari permessi fino a morire in carcere per mano di un boia.

A noi pare bizzarro che in questo libro si parli di una morte a portata di mano ogni giorno, come fosse normale assistere a fatti di sangue e, visto che è così normale, non è nemmeno il caso che questo possa turbare l’ordine fatto di calme apparenti e buoni sentimenti. È lo specchio dell’ipocrisia di oggi, di quella società in cui non si possono pronunciare certe parole, men che meno esprimere pensieri “eretici” per la maggioranza che non è pronta ad ascoltarli.

L’autore ci restituisce l’immagine di una società inconsapevole, proprio come quella in cui siamo immersi oggi, una società che accetta la morte se è altrui e si scandalizza per la propria come se non fosse la cosa più naturale del mondo.

Il finale è anch’esso una lunga riflessione che, attraverso degli esempi, ci comunica che alla morte si può anche scampare, nonostante si faccia di tutto per procurarsela. Mi ero già imbattuto in romanzi post-moderni e non li avevo considerati all’altezza della definizione, se fosse mai possibile chiarire cosa sia esattamente il post-moderno.

Questo libro, invece, non chiarisce cosa sia il post-moderno ma ne fornisce una visione più vivida, ovvero la capacità dell’autore di raccontare una storia apparentemente sconclusionata attraverso la confusione mentale dei personaggi e dello stesso lettore che tante volte si trova a leggere senza capire, non solo in questo romanzo.

Ecco, il pregio di questo libro è anche quello di obbligare il lettore a uno sforzo di attenzione, che gli faccia domandare: sono davvero io che non capisco? Più che di narrativa potrebbe trattarsi di un testo didattico, ma forse è talmente post-moderno che nemmeno l’autore lo sa.

Emergono, in “Rumore Bianco”, lo spaesamento e l’inconcludenza dell’uomo moderno che crede di poter dominare tutto, di sapere tutto per poi rendersi conto di non saper rispondere alle domande più elementari, domande che non pongono più problemi dell’attuale ma del già saputo e ovviamente dimenticato.

È un libro di paradossi, gli stessi paradossi di cui il protagonista, un professore di studi hitleriani, non si capacita. E suona paradossale, per certi versi, che proprio lui, un esperto di morte in quanto professore di studi hitleriani, subisca l’angoscia di ciò che conosce. Perché, di solito, quel che spaventa è ciò che non si conosce e spesso, per conoscere, bisogna andare oltre le qualifiche e la vera conoscenza non sta (solo) nell’istruzione ma nella capacità di capire il mondo.

E questa è la cosa più difficile, perché chi lo governa fa di tutto per mischiare le carte e, come un prestigiatore, mette in atto trucchi così inspiegabili che allo spettatore non resta che accettarli.

Benvenuti nella post-modernità, che oramai è attualità.

Post correlati