Per ciò che sono
Racconto di Antonella Perrotta
Pensavo di essere una donna fortunata per aver conosciuto l’amore vero.
Dario, il suo nome.
Eravamo appena due ragazzini quando ci siamo innamorati ed io sognavo di fare la maestra e lui il meccanico. “Appena troverò un lavoro, ci sposiamo, tu ed io” mi diceva e mi baciava dappertutto, sulle labbra, sul viso, sul collo. “Dovrò lavorare anch’io, però. Altrimenti, non mi sposo” ribattevo, ridendo.
Ma Dario non rideva. S’incupiva, invece. “Le principesse stanno nel castello ad aspettare il loro principe. Tu sei la mia principessa. Io sono o non sono il tuo principe?” rispondeva e mi abbracciava ed io dimenticavo di voler diventare una maestra.
A mia madre, però, Dario non piaceva. Diceva che era rozzo. Non capivo in cosa consistesse la rozzezza di cui lo accusava, ma non le chiedevo spiegazioni. Pensavo che lei non avesse nulla da insegnarmi ché mio padre quando avevo due anni se n’è andato da casa lasciandoci entrambe senza una spiegazione, come in un film in cui un attore imbronciato va a comprare un pacchetto di sigarette e non ritorna più. Era Dario l’unico uomo che mi avesse mai amato e si fosse lasciato amare, qualunque cosa ne pensasse mia madre.
Il giorno in cui fu assunto in un’autofficina che curava la manutenzione delle Toyota, io e lui festeggiammo insieme in un ristorante vero, con le tovaglie e i tovaglioli di stoffa, i fiori freschi al centro del tavolo e le luci soffuse. Prima di allora, soltanto pizzerie, rosticcerie, pub, ché i ristoranti costano. Quella sera, mi chiese di sposarlo e m’infilò, spavaldo, al dito un anello di fidanzamento. “Adesso, sei mia” disse. “Adesso, lo vedono tutti che sei fidanzata. Quest’anello è come un marchio. Non devi toglierlo mai.”
Quando tornai a casa, lo raccontai a mia madre e le mostrai il mio anello, fiera di indossare il marchio di Dario. “Il marchio?” urlò lei. “Cosa sei? Un animale? Dimmi, figlia mia, cosa sei per lui?”
“È un modo di dire come un altro, mamma.”
“No, Elena. È rozzezza. E se finora non l’hai capito, ti dico che mi riferisco ai sentimenti. Sono quelli che Dario ha gretti e cafoni. Pensaci bene, Elenù. Pensaci…”
Quella notte piansi per colpa sua. Pensai fosse invidiosa del mio amore, lei che era stata abbandonata, lei che, forse, non era mai stata amata. Non le parlai per molto tempo e organizzai da sola il mio matrimonio. Sarebbe stata libera di parteciparvi e di essere felice per me o di continuare a rodersi d’invidia. Lei venne e si commosse nel vedermi con l’abito da sposa. La abbracciai forte e dimenticai tutto. Era mia madre.
Il viaggio di nozze durò solo tre giorni perché Dario doveva tornare a lavoro e di soldi ne avevamo pochi. Di viaggi, ne avremmo fatti altri, ne eravamo convinti.
“Se lavoro anch’io è più facile farcela con le spese” gli dissi al rientro.
Dario non mi rispose. Mi guardò male, uscì per andare in officina e portò con sé anche la mia copia delle chiavi di casa. Una distrazione, certamente: questo pensai, senza neanche cercare altra spiegazione. Rimasi chiusa dentro tutto il giorno, ma non m’importò. Avevo tante cose da fare: cucinare, ordinare e anche disfare le valigie del nostro viaggio di nozze di tre giorni. Al ritorno dal lavoro, Dario sarebbe stato felice e, insieme, avremmo cenato e, insieme, ci saremmo addormentati e risvegliati. Perché noi ci amavamo. Da sempre.
Quella sera stessa, mentre mescolavo il sugo sui fornelli, gli dissi che avrei voluto chiedere a una dirigente scolastica di mia conoscenza se ci fosse stata la possibilità di una supplenza. In un Istituto parificato, magari. “Allora non ci siamo capiti, tu ed io” fu la sua risposta. Stava in cucina, dietro di me. Mi tirò per un braccio, facendomi male, e mi costrinse a voltarmi verso di lui. Poi, lasciò la presa e si scusò. “Sei la mia principessa, ricordi? E le principesse stanno nel castello ad aspettare il loro principe, non in giro a mendicare favori alle dirigenti scolastiche. Intesi, Elenù?” disse e mi baciò.
No, Dario. Non lo so se ci siamo intesi, tu ed io.
Continuo a cucinare, a ordinare la casa, a ridere, a baciarti, a chiamarti amore. Ma non chiedermelo più se ci siamo intesi perché, allora, dovrei risponderti di no ed io non voglio dirti di no.
Non voglio dirti: “No, Dario. Non riesco a capire perché non posso indossare un vestito rosso o il bikini al mare o una gonna corta, né riesco a capire perché non posso realizzare il mio sogno di insegnare. No, amore mio. Non riesco a capire perché le principesse devono starsene chiuse nella torre del castello. Non ho neanche una treccia da calare giù, io.”
Non voglio dirti: “No, amore. Non alzare la voce con me ché, tanto, non riesco a capirti lo stesso, anche se urli.”
Non voglio dirti: “Non strattonarmi, non schiaffeggiarmi, non sbattermi al muro, non prendermi per i capelli come fossi di pezza perché sono di carne e ossa, proprio come te, e sento dolore, proprio come te.”
Non voglio dirti di no. Perché ti amo e penso che anche ami me. Lo penso perché ritorni sempre a casa la sera, dopo il lavoro, e non mi lasci mai da sola come ha fatto mio padre. Lo penso perché sai anche essere gentile e premuroso. Perché lavori duramente per non farmi mancare niente, cibo, vestiti, bollette pagate, anche le vacanze d’estate e un mazzo di rose rosse il giorno di San Valentino e quello del mio compleanno.
Perciò, amore mio, non voglio dirti di no. E anche quando, a volte, lo sento venire fuori, potente e rabbioso, dalle viscere o dal cuore, mi sforzo di farlo rimanere là, fermo in gola, e mi costringo a non urlartelo in faccia il mio “No”.
In fondo, ognuno ama a suo modo. Tu hai il tuo, io il mio.
Questo, mi dico. Questo, mi ripeto. Tutti i giorni. Da dieci anni.
Però, stasera te l’ho detto. Anzi, te l’ho urlato il mio “No!”
Scusami, amore. Scusami, ma stasera mi hai fatto troppo male e, così, è venuto fuori dalla gola senza che riuscissi a trattenerlo.
Il tuo volto si è impietrito. Le mie urla ti hanno ferito, l’ho capito, sai? Ed io non voglio ferirti, non voglio farti soffrire. Perciò, ti chiedo scusa. Scusa di tutto. Scusa, perché non mi è mai piaciuto vivere come una principessa rinchiusa nella torre del castello. Scusa, sebbene ci sia rimasta in questa torre che profuma del mio sugo e delle tue rose rosse.
Scusa, perché non mi sono rassegnata all’idea di non insegnare, sebbene non l’abbia fatto e non abbia mai parlato con nessuna dirigente scolastica.
Scusa, se amo i vestiti rossi, i bikini al mare e le gonne corte, sebbene non li abbia mai indossati.
Scusa, se non ti ho dato dei figli. Scusami, anche se lo sterile sei tu.
Scusami, se non sono la donna che tu vorresti io fossi. Scusami, se mi rifiuto di essere la donna che tu vorresti.
Però, amore mio, anche se alzi le mani su di me, io resto sempre Elena. I segni delle tue dita sulla mia carne non mi faranno diventare una donna diversa. Perciò, è inutile ti accanisca su di me. Da anni, ormai. Non l’hai ancora capito che è inutile? E, allora, amore mio, perché lo fai? Perché continui a farmi male, anche se dici di amarmi?
Stasera te l’ho sussurrato il mio perché. Mentre accarezzavo il tuo viso impietrito dal mio “No”, sciorinando le mie scuse come faceva la nonna con i grani del rosario.
A ripensarci, è un controsenso questo mio ammettere delle colpe che non mi riconosco. Sono confusa, parecchio confusa. Le certezze di tutti questi anni insieme sono divenute fragili quanto le pagine di un vecchio libro che si polverizzano al tatto.
Tu mi rispondi, però. Con gli occhi gelidi e la voce ferma, insensibile al mio tormento. “Perché sei una femmina” mi dici.
E ti volti. Ed esci sbattendo la porta.
Femmina: avresti fatto meglio a dire donna. Forse, mia madre si riferiva a questo quando diceva che eri rozzo. Ma il senso delle tue parole non cambia, femmina o donna che dir si voglia. Non cambia che io sono malmenata da te non per ciò che faccio, ma per ciò che sono o, forse, per ciò che non sono: la “femmina” che tu vorresti.
Non cambia che tu, Dario, non mi ami. Non mi hai mai amata. E non potrai amare nessuna, perché non le apprezzi, le donne, ma le guardi con disprezzo proprio perché sono donne. Si ha cura e rispetto di chi si ama e, invece, tu maneggi e custodisci con cura maniacale i modellini delle tue Ferrari e delle tue macchinine da corsa, ma non fai altrettanto con me. Eppure, siamo di tua proprietà, persone e cose, io e le macchinine. O non è, forse, così?
Sì, è proprio così. È questa è la verità, Elenù, convincitene.
Fa male ammetterlo, ma mia madre aveva ragione sulla rozzezza dei tuoi sentimenti. Solo ora capisco cosa voleva dirmi. Ora, che non posso più confessarle che aveva ragione e non posso più porgerle le mie scuse per aver dubitato della sincerità delle sue parole. Ora che lei non c’è più, mentre io sono rimasta qui, da sola, rinchiusa nella torre di questo maledetto castello. Penso e ripenso alla mia ingenuità. Alla mia stupidità, per quanto mi dispiaccia riconoscerla. Penso a cosa fare e non mi si mostra altra soluzione se non quella di fuggire dalla torre proprio adesso che sei uscito sbattendo la porta.
Faccio le valigie. Metto dentro l’essenziale. In fondo, non ho molto da portare via. Non servono vestiti, scarpe, gioielli per stare rinchiusa fra quattro mura. So dove tieni i soldi: in un barattolo del caffè sulla mensola, vicino ai modellini delle auto, nella tua stanza dei giochi, quella che doveva essere la stanza del figlio mai arrivato, del figlio cui ho rinunciato per restare con te.
Sì, Dario, è arrivato il momento che tu sappia che, per quanto abbia sempre fatto finta di niente, a me un figlio è mancato. Ma, visto che il padre non potevi che essere tu, l’amore della mia vita, io non l’ho cercato. Così come non ho cercato un lavoro e delle amicizie e anche questi mi sono mancati. Così come non ho cercato neanche mia madre.
È arrivato il momento che tu sappia che hai fatto di me una donna infelice.
È arrivato il momento di dirti che non ti amo più. Ho provato a convincermi di amarti ancora, ma non si può continuare ad amare chi ti fa tutto questo male.
Questa è la verità. La confesso a te e, soprattutto, a me stessa.
Viene fuori tutta in una volta, questa verità e anche questo dolore fatto di rancore. E, allora, mi affanno nella ricerca delle mie cose da portare via perché, adesso che finalmente tutto mi è chiaro, non posso resistere un minuto di più in questa casa. Trovo tremilacinquecento euro nel barattolo del caffè. Li tieni qui dentro perché non ti fidi delle banche. Li prendo. Questi soldi sono anche miei. Ma se tu non dovessi pensarla così, se per te sto compiendo un furto, allora ti dico che è solo un misero risarcimento per tutto ciò di cui ho voluto privarmi finora. Ho voluto, sì. Perché sono stata io a consentirtelo. Io, ossessionata da te. Io, vittima di un sentimento malato che mi ha chiuso gli occhi e annebbiato la mente mentre andavo spegnendomi ogni giorno di più.
Lascio questa casa e fanculo le tue rose rosse.
Non so dove andrò. So, però, che il tuo volto diventerà nuovamente di pietra quando rientrerai e non mi troverai ad aspettarti. So che urlerai come sei bravo a fare. E, magari, te la prenderai con qualcosa, una porta, dei piatti in cucina, i soprammobili in soggiorno, perché anche a sfogarti con i pugni sei bravo.
Ma, adesso, non m’importa più del tuo dolore. Mi basta il mio.
Adesso, voglio solo pensare a me stessa. Amare me stessa.
Spero, un giorno, di riuscire ad amare anche un altro uomo. Uno per cui sono Elena, quella che sogna di diventare maestra e madre, quella che ama i vestiti rossi, i bikini al mare, le gonne corte e le lunghe passeggiate all’aria aperta. Un uomo che ami le donne.
Un uomo che ami me.