Parthenope. Triste e frivola, determinata e svogliata… come Napoli
Articolo di Letizia Falzone. In copertina la locandina del film
“Sono stata triste e frivola, determinata e svogliata. Come Napoli”.
Prendendo ispirazione dalla leggenda della sirena da cui si dice ebbe origine la città di Napoli, Sorrentino immagina e crea una realtà in cui questa figura vive sotto le sembianze di una donna in carne ed ossa. Parthenope nasce, come nel mito, dentro le acque di un mare (a Posillipo) con il quale manterrà sempre un legame profondo, atavico, indissolubile.
La ragazza cresce e ammalia chiunque le graviti intorno, a partire dal fratello maggiore Raimondo: il rapporto tra i due sfiora i confini di ciò che potrebbe essere definito incesto, mantenendo però anche una purezza e un affetto tangibili. A chiudere una sorta di triangolo perfetto, l’amico Sandrino, da sempre innamorato di Parthenope e soggiogato da questo incantesimo inarrestabile.
Attorno a lei si muovono figure importanti ma sempre di contorno, dal fratello al primo fidanzato, dal professore che ne farà una docente universitaria, alla grande attrice inacidita dal declino, all’anziano riccone straniero narciso, al vecchio, cinico, vescovo custode del sangue di San Gennaro, il cui incontro aprirà la strada a sensazioni non ancora vissute.
Sviluppandosi su un arco temporale che va dal 1950 al 2023, Parthenope parla di un luogo e un mito, di libertà, del mistero della femminilità e assume i tratti di un’epopea, di un racconto di vita, dentro cui si muovono e interagiscono il fascino per la bellezza, il desiderio di carpirne il significato, l’amore per l’arte e la frustrazione per chi invece non ha alcun interesse in merito. Parthenope incanta fin dalle prime sequenze con una fotografia luminosa e una colonna sonora sognante che annovera giganti come Frank Sinatra e Riccardo Cocciante con la sua “Era già tutto previsto”.
Ma la vera protagonista di questo film è, prima di ogni altra cosa, Napoli, con la sua incommensurabile bellezza e l’inevitabile disperazione che avvolge lei e coloro che la popolano. Parthenope non è altro che lo specchio e la rappresentazione della sua città: la sua diretta incarnazione. È sempre in bilico tra grandezza e miseria, sfacciataggine e seduzione.
Ecco allora che ci accorgiamo che la ragazza nata per catturare gli sguardi è stata in realtà quella attraverso i cui occhi abbiamo guardato passare un pezzo di vita, e di Napoli e di noi stessi e della nostra giovinezza. Attraverso i cui occhi abbiamo visto. Il professor Marotta (interpretato da Silvio Orlando), quello che per anni risponde a Parthenope di non sapere cosa sia l’antropologia, finalmente le rivela: “L’antropologia è vedere”. Non guardare; vedere. E vivere vedendo, accettando la bellezza del grottesco e dell’insolito, lasciandosi scorrere addosso le immagini e la vita, che all’improvviso ti ritrovi tutta davanti, già vissuta.
Tutto in Parthenope rimanda alla poetica e all’estetica sorrentiniane: la vita da vivere tra realtà e suggestioni, la magia di luoghi e momenti scovati nelle pieghe del quotidiano, quella che suscita la bellezza femminile, da celebrare con un misto di stupore (quando la si incontra) e smagatezza (riguardo a ciò che suscita attorno a lei).
Alla fine, negli occhi e nell’orecchio, ci rimangono le parole e gli sguardi della bellissima Parthenope, il dolce sciabordare delle onde del mare, la sua vista placida e incantata, l’umile povertà di certe stradine del centro e la scintillante ricchezza del tesoro di San Gennaro.
Uscire dalla visione come dal mare di Napoli, grondante emozioni e riflessioni, che sgocciolano nel tempo, generando altre connessioni, e impressioni sempre più durature. Segno che il cinema di Sorrentino continua a stupire ed emozionare, purché si sappia vedere.
“È stato meraviglioso essere ragazzi. È durato poco” dice Parthenope, che è triste e frivola, determinata e svogliata, viva e sola. E sorride. Un inno alla bellezza e all’eternità. Forse “era già tutto previsto”. Forse no.