Il diritto di crescere

Il diritto di crescere

Articolo e foto di Antonella Longo

“Ho paura di perderti”

Chi non ha mai sentito o detto a qualcuno di importante questa frase? Qualcuno la custodisce dentro di sé per paura di pronunciarla, perché ha il terrore che possa avverarsi.

Molti in questo momento staranno pensando alla propria metà, ad un’amicizia cara. Nei film più romantici c’è quasi sempre il posto per queste parole forti e piene di sentimento. L’effetto, probabilmente, potrebbe essere ancora più dirompente quando è una bambina o un bambino di soli tre anni a pronunciarle.

“Ho paura di perderti, mamma”.

Per quanto possa lusingare avere la conferma di essere così importante per il proprio figlio, per la propria figlia, questa frase può anche avere il potere di mandare in frantumi la propria serenità da genitore.

Perché in un bambino di tre anni è nata questa paura? Non gli si è dedicato abbastanza tempo? Ci sente lontani? Ha percepito l’inizio di una nuova routine come qualcosa di minaccioso perché il tempo insieme è minore?

Personalmente non so dare una risposta sicura e precisa a queste domande, ma so che iniziano a martellare la testa di una mamma o di un papà ed espandono quel sentimento misto tra senso di colpa e vuoto che lo assale ogni qualvolta deve lasciare il proprio piccolo nelle mani di qualcun altro.

C’è chi etichetta questa situazione come normalità, altri come un’esagerazione sentimentale. Si sente così tanto parlare, soprattutto nelle scuole, di mettere gli studenti e le studentesse – e quindi i bambini, i giovani – al centro di tutto, dell’azione didattica e dell’azione educativa, per tutelare la soggettività e le fragilità, oltre che i talenti di ognuno. Si parla di super progetti di educazione civica, di orientamenti per carpire anche la più nascosta essenza di ciascuno per guidarlo ad una scelta consapevole, che lo soddisfi, che un domani lo renda felice.

Ma siamo così sicuri di tutelare davvero il mondo interno di un minore?

Non è obbligatorio diventare genitori, quindi non è altrettanto obbligatorio sostenere questo enorme carico di responsabilità e di emozioni, è vero anche, però, che se nessuno di noi sentisse questo desiderio, il cerchio della vita si interromperebbe, l’umanità invecchierebbe raggiungendo un punto di non ritorno e il mondo cesserebbe di esistere.

Fortunatamente esistono ancora persone che desiderano davvero mettere al mondo delle creature e negli ultimi anni si sente spesso parlare di “incentivare la natalità” perché evidentemente queste persone che vogliono fronteggiare il mare mosso della genitorialità non sono poi così tante.

Forse bisognerebbe chiedersi: perché? Di sicuro esisterà una parte a cui il termine famiglia non interessa, perché ha altre priorità, e va benissimo così. Ma è davvero questa la motivazione per tutti gli altri?

Che cosa significa avere un figlio, oggi, in Italia?

Un figlio è un essere umano e, come tale, vive non solo di aria, di battito cardiaco, ma è fatto anche di emozioni, di pensieri, di paure, di dubbi, di bisogni.

Ma un bambino o una bambina tutto questo non lo sa. Non conosce il mondo, ma prima di tutto non conosce se stesso ed è compito del genitore guidarlo, sorreggerlo, rassicurarlo.

Come è possibile adempire a questo ruolo ?

Attualmente, in una società che vede il lavoro al primo posto, prendersi cura di un’altra vita è difficile sin dall’inizio di una gravidanza, se poi si pensa a ciò che accade dal momento del parto e quindi della nascita, ogni tentativo di tutela crolla in un precipizio profondissimo e i genitori vengono sormontati da una paura gigantesca, che a volte sfocia anche in vera e propria e pericolosa depressione.

Per non rinunciare ad un’entrata economica decente, bisognerà affidare le cure del proprio bambino, a soli 3 o 4 mesi, alle mani di una persona che, per quanto esperta nell’educazione, sarà un’estranea (che non si conoscerà mai realmente, perché a tre mesi non si può dialogare con il proprio figlio per conoscere davvero l’importanza che gli viene data).

Però, effettivamente, i genitori hanno 30 giorni all’anno per le eventuali – ossia certe – malattie che il bimbo contrarrà fino al compimento dei tre anni. Impresa difficile, ma forse ancora fattibile.

Poi il declino irreversibile e tremendo.

Cosa accade dopo? Come realmente si dovrà gestire la vita di un bambino a partire dal compimento dei suoi tre anni?

In sintesi: cinque giorni all’anno, per ciascun genitore, non retribuiti per le eventuali – e anche qui ovvie – malattie a cui il piccolo sarà esposto, fino ai suoi 8 anni. Cinque giorni che rispondono al cosiddetto giustificativo “malattia bambino”, ossia quei permessi (come se servisse davvero chiedere un permesso per accudire il proprio figlio) che in ambito lavorativo sono compresi, accettati, concessi, certo però se si potesse farne a meno e affidare il “pacchetto malato” a una tata, a un nonno sarebbe sempre meglio.

Fermi tutti. Crescere un figlio vuol dire questo?

È davvero giusto affidare le sue cure a qualcuno che non sia la sua mamma o il suo papà?

Oltre tutte le tutele economico-burocratiche verso un’istituzione pubblica o privata, qualcuno ha pensato all’emotività di quel bambino?

Davanti alle insicurezze della crescita, alla scoperta dei sentimenti, al bisogno fisico ed emotivo di avere una carezza, un abbraccio, una rassicurazione da parte della propria mamma o del proprio papà, siamo sicuri che sia giusto mettere due genitori che lavorano nella situazione di trovare qualcuno al di fuori di loro – gli unici che realmente conoscono il proprio figlio – che si prenda cura di una creatura che sta imparando a stare al mondo?

Siamo sicuri che gli adolescenti perennemente e talvolta inspiegabilmente tristi non siano stati quei bambini che non hanno avuto accanto almeno un genitore nel momento del bisogno?

Dieci giorni all’anno. Sono permessi dieci giorni all’anno per prendersi cura del proprio figlio. Ciò rende impossibile ad entrambi i genitori di lavorare con serenità. Qualcuno soccomberà a queste assurde regole, qualcuno ancora sarà costretto a fare i conti con la propria coscienza e si licenzierà.

La natalità non è un mero report.

Ogni nascita non è un numero in più da aggiungere ai fini statistici.

Ogni bambino che nasce è una vita che germoglia e che ha bisogno di cure, di attenzioni, di occhi che la osservino, di braccia che la tutelino, di mani che la accarezzino e dieci giorni all’anno non sono sufficienti.

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