Mi manca il Novecento. Nicola Vacca e il lungo viaggio nel “secolo breve”

Mi manca il Novecento. Nicola Vacca e il lungo viaggio nel “secolo breve”

Recensione di Paolo Fiore. In copertina: “Mi manca il Novecento” di Nicola Vacca, Galaad, 202

Tra i mille personaggi che possono incarnare il Novecento certamente il Pereira di Antonio Tabucchi porta con sé il carico di umanità lacerata e contraddittoria che ha attraversato questo secolo. E tra il “Pereira” soggetto e il “Pereira” oggetto di quel “sostiene” si srotola tutta la tragicità e la fragilità del Secolo breve e della condizione umana che se da un lato vuole affermare (sostenere), dall’altro cerca disperatamente qualcosa che la sostenga. E la (quasi) commovente perentorietà di quel verbo è l’autentico contrappasso della fragilità umana che al massimo potrebbe balbettare e invece osa, addirittura (!) sostenere.

Quasi a voler rivendicare una inesistente e tronfia pesantezza dell’essere e non riconoscerne piuttosto onestamente la sua “insostenibile leggerezza” in una transitorietà ineluttabile. Tabucchi e Kundera sono, però, solo due grandi nomi nell’avvincente caleidoscopio di menti dello scorso secolo che fanno affermare sentitamente a Nicola Vacca “Mi manca il Novecento”, nel suo omonimo saggio, Galaad Edizioni. Rispetto al delirio affabulatorio e parolaio del nostro secolo, il Novecento ci ha offerto, ad esempio, la sottrazione della parola nella figura di Bobi Blazen dello Stadio di Wimbledon, un uomo che, rispetto al narcisismo della parola contemporanea, ci ha dimostrato che si può scandagliare profondamente l’umano non raccontandosi ma piuttosto facendo come lui che “scriveva la vita degli altri”.

Ciò non significa, però, che quel secolo sia stato compiacente con i suoi pensatori o abbia fatto loro sconti a buon mercato. E in effetti sembra proprio inappellabile La solitudine del satiro Ennio Flaiano o quella altrettanto radicale di Emile Cioran o, d’altronde, la condanna del grande Pasolini da parte dell’ipocrisia perbenista dei suoi contemporanei. Per non parlare dei no che la prima metà di quel secolo ha purtroppo detto ad importanti figure come Guido Morselli forse proprio per non ascoltare voci profetiche come la sua che annunciava la Dissipatio H.G.

Ma pur nella loro profonda diversità, quegli autori, anche indirettamente, hanno saputo parlarsi richiamandosi spesso nei loro pensieri. Così che a Morselli, che fa dire al personaggio del suo romanzo che “Il pericolo essenziale – l’uomo – non c’è più”, sembra rispondere Cioran affermando che è stato esattamente un inconveniente [l’] essere nati. Ma non fa sconti all’ipocrisia umana neanche Albert Camus che con La caduta ci presenta l’uomo come un “profeta vuoto per tempi meschini”, un “falso profeta che grida nel deserto e rifiuta di uscirne”. Su un fronte totalmente diverso, d’altronde, Cioran e Pasolini incrociano la dimensione della spiritualità pur da punti di partenza abissalmente distanti. E se lo scrittore friulano trasfigura il Cristo de La crocifissione in “Sereno poeta / fratello ferito” “per testimoniare lo scandalo” Cioran nel suo Lacrime e santi scrive che “Il più modesto balbettio mistico è più vicino a Dio che la Summa theologica”. Poi, certamente, il Novecento è stato anche il secolo delle Ideologie, della loro apoteosi e del loro tramonto.

Secolo breve, come è stato definito, ma non per questo meno intenso. Anzi! E proprio un anti-ideologico per eccellenza vissuto cinquecento anni prima, Giordano Bruno, al cardinale Bellarmino che lo ammoniva sulla prematura fine della sua vita, rispose: “Non ho mai voluto una vita lunga, ma l’ho voluta piena”. Ed in tema di premonizioni, altrettanto profetico è stato, ad esempio, Bret Easton Ellis che prefigurava, trent’anni prima, il Ground zero politico dell’occidente nel suo Less Than Zero sociale, come scrive Nicola Vacca, “il ritratto disincantato di una nuova generazione perduta”.

Così come l’abbattimento delle Torri gemelle che sembra simbolicamente spegnere dopo tre decenni Le mille luci di New York, il romanzo di Jay McInerney che è uno “spaccato antropologico” della grande mela o sembrano confermare la prospettiva di Estinzione nella quale Thomas Bernhard, lascia, come scrive Nicola Vacca, che “l’oscurità dei tempi impregni i nostri fragili sogni di salvezza che naufragano in un nulla senza possibilità di riscatto”. Mentre al di qua dell’oceano gli fanno eco le pagine de Gli Indifferenti e de La noia di Moravia con i temi dell’ “aridità morale degli esseri umani, l’ipocrisia, l’incapacità di aspirare alla felicità […] e l’alienazione dell’individuo” e quelle di Altri libertini e Camere separate, con le quali Pier Vittorio Tondelli mostra una nuova generazione di scrittori e al tempo stesso le contraddizioni di un’epoca.

Ma quel secolo ha goduto anche dei toni geniali e dissacranti di un Carmelo Bene de Il teatro senza spettacolo, dello smascheramento dell’ipocrisia del perbenismo e della politica del Leonardo Sciascia de Il Giorno della civetta, de Il Consiglio d’Egitto e ancora di Una storia semplice o di Toto modo e della provocazione acuta e acuminata di un Boris Vian, antipoeta e genio de La schiuma dei giorni, come scrive Nicola Vacca, “con in mano le chiavi per aprire i cancelli dell’assurdo”.

Il Novecento ha attraversato l’oceano della contraddizione imbarcandosi nella tragicità patetico-grottesca del quotidiano con L’Ulisse di Joyce e attraversando l’abisso indicibile di un Viaggio al termine della notte, sospesi entrambi nella stasi spazio-temporale del proprio personale Deserto dei tartari pur continuando carsicamente a scavare sotto La pelle come fece Curzio Malaparte senza mai la speranza di riemergere dalle profondità di un Cuore di tenebra ma svegliandosi al contrario nell’universo concentrazionario ideologico di una Fattoria degli animali spiati decenni prima da un inquietante Grande fratello o più mestiziamente nei giorni senza colore di una Vita agra alla Luciano Bianciardi.

Quel Novecento che si affaccia alla storia scendendo dalla Montagna incantata di Thomas Mann, guardandola dal “microcosmo del sanatorio” […] “attraverso la malattia che è anche male morale”, come scrive Nicola Vacca per tracimare nelle sterminate pianure di Rilke dove “il libero animale dietro di sé ha il suo tramonto […]e il suo andare somiglia alle eterne fonti, quando cammina… ma gli è preclusa la vista della morte” per visitare, infine, gli infiniti quotidiani sanatori del male fisico e del male di vivere nel tentativo assurdo di individuare colpe inesistenti sulle labbra delle tante Dicerie dell’untore del nostro Gesualdo Bufalino quando le sublimi pianure scolorano in waste land interiori, terre desolate ai confini dell’umano da quelle di Thomas Eliot all’inizio del secolo fino a quelle di Stephen King verso la sua fine.

Non c’è un’unica pista che attraversa il secolo breve ma una molteplicità di cammini che si interrompono più volte di fronte ai reticolati delle guerre che lo hanno insanguinato, alle ingessature delle ideologie che lo hanno imbracato ma da cui sempre hanno spremuto le parole profonde della narrazione finanche quando, dopo gli orrori del Secondo conflitto mondiale, si era temuto che non ci sarebbe stata lingua in grado di significare quella tragedia.

E in quel disorientamento siamo stati tutti, almeno una volta, un Fu Mattia Pascal tra i centomila nessuno della contemporaneità, abbiamo raccontato senza scopo la nostra Coscienza di Zeno o abbiamo vestito i panni di Un uomo senza qualità per i quali, fiumi di parole non valevano la potente evanescenza di un odore nella Ricerca del tempo perduto. E quell’odore, surrogato emblematico della parola, è anche quello del sesto senso del commissario di Simenon che attraversa il disordine e la contraddizione dell’umano con il suo metodo: Il metodo di Maigret, per l’appunto, come quello de L’uomo che guardava passare i treni, fosse anche il Treno di notte per Lisbona di Mercier Pascal che abbiamo preso al volo leggendo avidamente Se una notte d’inverno un viaggiatore forse infine proprio per vedere ancora una volta, fosse anche l’ultima, Lisbona che sfavillava ritornando di nuovo a Tabucchi proprio come Sosteneva Pereira.

E qui il cerchio si chiude. Almeno questo cerchio. Ma, ovviamente, uno soltanto dei mille cerchi concentrici del secolo breve che ricordiamo come Novecento e che proprio per questo non può non mancarci così tanto! Molti altri sono gli autori che Nicola Vacca intercetta nel suo saggio, ovviamente, a loro volta, minima parte di un più vasto orizzonte di importanti figure del pensiero novecentesco.

Ma questo è ciò che marca la differenza tra un manuale e un saggio, un grigio indice sistematico e una visione prospettica. Purtroppo, scrive Nicola Vacca, nelle pagine finali del suo libro “Sul nostro Novecento pare ci sia una sorta di maledizione. Troppe le omissioni e le rimozioni forzate” concludendo che “La ricchezza letteraria del nostro Novecento rischia di essere completamente dimenticata”. [Ma] “il futuro, le sorti e il destino della nostra letteratura passano inevitabilmente per la tradizione novecentesca per il necessario recupero di alcuni grandi scrittori ritenuti irregolari e dimenticati”. Il nostro futuro è ricco di passato. Un’eredità irrinunciabile, ma di cui essere degni.

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