Fantasmi
Prosa di Giuseppe Bella. In copertina “Astrazione in anta, sospensione”, Calusca, 2017. Foto fornita dall’autore dell’articolo
La pittura di Calusca, nei suoi momenti di più intenso pathos, è incuriosita dalle tracce amare che i corpi imprimono nel vuoto allorché, per cause inesplicabili, sono costretti a scomparire, a uscire di scena: letteralmente, a diventare ob-sceni; allora un’inconsolabile solitudine precipita sugli oggetti d’affezione; e gli ambienti che li accoglievano diventano spettrali, un’asciutta tristezza li pervade, li avvolge un’aria in cui risuona l’eco di parole e gesti, ormai svaniti.
Gli interni vuoti sono diventati, alla lunga, per Calusca, la sua cifra stilistica predominante: scorci di balconi da cui indaffarati inquilini sono scomparsi, come evaporati nell’aria immobile; corridoi invasi dalle tenebre più impalpabili; scale che dal buio torpido della notte salgono incontro alla luce di un giorno iperboreo; poltrone, sedie, divani immersi nella nostalgia dei corpi che essi non potranno più ospitare; ringhiere e assiti di legno, che l’esatta alternanza di luce e ombra svuota di ogni utilità, inglobandoli in una dimensione geometrica allucinata. Non si vede polvere, né si accumulano detriti: tutto è pulito, sterile. Quasi che il tempo in questi luoghi non avesse mai esercitato la sua rovina. Qui, per quanto l’abbandono sia profondo, ogni misura cronologica viene abolita. Non si saprà mai quanti giorni, quanti anni o quanti lustri siano trascorsi; ma da cosa? Da quale evento? Forse non c’è mai stato inizio. Eppure quell’attimo deve essere scoccato – quell’attimo in cui si estinse il calore emesso dai corpi vivi.
Per un’insolita virtù di cui un dio ironico e un po’ maligno mi ha fornito, riesco a percepire la vacuità perfino nei volti delle persone su cui poso il mio sguardo proteso alla pittura; questi speciali volti già proiettano intorno a loro la luminescenza del fantasma che saranno. O forse del fantasma che già sono. Sulle mie tele illustro corpi nello stesso tempo presenti e già fuori dalla scena. Su questa oscenità del corpo prossimo a dileguare pur rimanendo ancora accessibile alla vista, su questo paradosso di un corpo fisico che rivela in sé i segni chiari della propria evanescenza, la mia immaginazione indugia. E a lungo andare vi si apprende, ostinata. Osservate i volti che la mia pittura espone. La materia di cui essi si compongono ha un colore livido. I lineamenti, pur definiti nei loro tratti precipui, inclinano a sfaldarsi. Gli occhi appaiono velati da nostalgie indicibili, in altri casi sembrano travolti dalle frane del ricordo. In poche circostanze questi occhi hanno una acutezza da rapace, rivelano una volontà rapinosa, attorno a cui il volto umano si condensa e prende forza, staccandosi da invisibili forze disgreganti, da quelle campiture di energia al calor bianco, che ammolliscono i tessuti e rendono incerti tutti i contorni.
A volte penso che le creature non siano altro che tristi fantasmi emergenti da un amniotico liquido biancastro.
Vero: ammiro Francis Bacon – quella carne le cui fibre gemono nei gorghi putridi del dolore; quei volti quasi cancellati da imbratti aspri, quelle bocche deformate dall’eccessivo orrore. Ma, appunto, Bacon rimane dentro la carne, implicato nelle sue linfe, nei suoi umori corrotti: io colgo, attraverso la carne, l’ombra sbigottita dei suoi fantasmi.