‘O Cane. Luigia Bencivenga e un’allegoria sul malaffare
Recensione di Martino Ciano. In copertina “‘O Cane” di Luigia Bencivenga, Italo Svevo, 2024
‘O Cane di Luigia Bencivenga è uno di quei romanzi che ci fa attraversare un mondo. Tramite l’allegoria, l’autrice si è creata un punto di vista privilegiato. Il suo occhio penetra nelle vicende, negli animi dei personaggi, limitandosi però alla fredda osservazione. La sua voce invece è tanto autorevole quanto canzonatoria; rende tutto leggero come in una commedia teatrale.
Il luogo in cui si svolge la storia è Ilias, città immaginaria della Campania in cui si verifica un’improvvisa moria di cani. Scoprire perché ciò avvenga e quali misteri si celino dietro tali misfatti è compito dei lettori, dato che qui non si scrivono sinossi; ma, d’altronde, anche la trama è marginale, visti i piacevoli “disturbi” che l’autrice inserisce per renderla poco lineare.
Infatti, Bencivenga assembla storie e cuce intrecci, ciò fa del libro l’opera “di un mondo” che si specchia nella più truce delle realtà. Non ci metteremo troppo a capire che questo riflesso di Napoli, con tutti i suoi pro e contro, ci ingabbierà velocemente con il suo sarcasmo. Tutto qui viene scimmiottato, ridotto al grado di “segreto di Pulcinella“, ossia a qualcosa che tutti sanno ma che nessuno ha il coraggio di dire.
Il mondo di Ilias è anche rappresentazione di tutte le nostre città, divise in zone buone, cattive e di mezzo, abitate rispettivamente da coloro che contano, da coloro che sono inutili e da quelli che invece vivono in una necessaria neutralità. Il problema è quando qualcuno tenta la scalata perché convinto di aver capito le regole e di poterle facilmente aggirare.
Con uno stile crudo e tagliente, che mi ha ricordato “Il contagio” di Walter Siti, e con una costante oscillazione tra fiction e verosimiglianza della quotidianità, formula con cui Roberto Bolaño ha decorato un libro monumentale come “I Detective Selvaggi“, Bencivenga ha la capacità di legarci alle pagine, di strapparci sorrisi e di farci riflettere amaramente sulla nostra società.
Il sovvertimento di ogni tabù, di qualsiasi regola morale in favore dello svelamento dell’ipocrisia, che mai come in questo libro è “l’omaggio che il vizio fa alla virtù“, come ebbe a dire La Rochefoucauld, sono gli elementi caratteristici che ci faranno ricordare per molto tempo questo romanzo.
Ampio il numero di personaggi che Bencivenga manda sul campo; astuto il modo in cui ognuno di loro ci viene presentato, ossia come uomini straordinari le cui gesta hanno contribuito alla crescita della comunità. Inutile dire, che questo metodo ammiccante, incentrato più sui vizi che sulle virtù, ci suggerisce una lezione che proprio non digeriamo, nonostante ci piaccia tanto applicarla: il più furbo vince.
Logicamente, il gioco termina quando qualcuno sfoggia quella “onestà intellettuale” che non ha però il compito di rivoluzionare, ma solo di giustificare, in qualche modo, il funzionamento del mondo. Insomma, tra favola nera, thriller e allegoria, Bencivenga ci dona un romanzo che non fa sconti e che, lasciatemelo dire, testimonia un’invidiabile freschezza creativa.