Una lunga notte africana. Massimo Angiolani e la “casuale libertà”

Articolo di Martino Ciano. In copertina: “Una lunga notte africana” di Massimo Angiolani, autopubblicazione, 2024
Scrivere per scrivere, questo imparo ogni volta che mi avvicino a un’opera di Massimo Angiolani, autore che da tempo ha smesso di inseguire il pubblico e le case editrici. Lui non chiede mai nulla, se ne sta nel suo mondo, in una disgraziata beatitudine della quale si scrolla solo per auto-pubblicare qualcosa che poi invia a pochi intimi.
Angiolani lo conosco da anni, non ha bisogno delle mie lusinghe o delle mie riflessioni; per me lui è e resterà sempre un esempio di pura e sensata “marginalità”. La sua scrittura lo dimostra, perché è manifestazione di una voce così libera dagli schematismi da rendere ogni suo libro unico.
“Una lunga notte africana” non fa eccezione. L’Africa di Angiolani inizia a Roma, città in cui capita per cambiare vita. Il protagonista è uno squattrinato che non sa esattamente cosa fare, che si sorregge psicologicamente su un mantra che recita pressappoco così: “sono un uomo colto che ha scritto libri”. Fatto sta che resta pur sempre un individuo senza un soldo, in perenne crisi di identità e fieramente “fallito”.
Fallito come lo siamo più o meno tutti, in quanto inseguitori di sogni che mai si realizzeranno.
Non vi è tra queste pagine un piagnisteo, ma una poetica dell’accettazione e della ricerca della libertà che coincide con la necessità di “non avere nulla e di non essere legato a qualcuno per avere, invece, tutte le direzioni possibili davanti ai propri occhi”. Eppure, non siamo in presenza di un libertino, ma di un uomo, soprattutto uno scrittore, convinto delle sue idee; persino delle sue indecisioni.
Lui cambia di continuo lavoro; i suoi pensieri non si fossilizzano; saltella da un punto a un altro per conto di una sana irrequietezza. Il protagonista è nemico della stabilità, così come lo è di sé stesso. Nel suo arrancare senza speranza, ancora una volta, lui viene salvato, o forse condannato di nuovo, dal fato che fa, disfa e produce.
È lo stile di Angiolani a riempire la storia di un autentico fascino da perdigiorno. Vagabondare è un atto politico: avvia un’analisi su ciò che l’illusione capitalista ha prodotto in tutti. Così come una carta di credito lo salverà dall’improvvisa rottura di un dente, così il protagonista di questo breve romanzo viene salvato dalla scrittura, o meglio, da una contemplazione del disordine traducibile in parole.
Insomma, trovate un modo per leggere questo autore.