Mia e la voragine. Diana Ligorio e la favola dell’innocenza perduta

Mia e la voragine. Diana Ligorio e la favola dell’innocenza perduta

Recensione di Gianfranco Cefalì. In copertina: “Mia e la voragine” di Diana Ligorio, TerraRossa edizioni, 2022

Mi sono tuffato con gli occhi aperti dentro la voragine. Nonostante l’acqua, nonostante le rocce, i rifiuti, gli animali, i rottami. Sono stato trasportato da un fiume, ho sentito la corrente trascinarmi, la pioggia ferirmi, le pietre graffiarmi. Ho costruito e protetto, saltato e nuotato, ho respirato, osservato e seguito. Ho accudito e pianto. Ho incontrato la rabbia e i miei pensieri. Ho incontrato animali e mammiferi umani. Ho allontanato tutti e abbracciato tutti. Ho viaggiato, ho fatto un viaggio meraviglioso attraverso un mondo reale fantastico, ho navigato nella mente, nel cuore, e l’ho fatto attraverso il corpo, gli occhi e lo sguardo di Mia, dieci anni, quasi undici, poi undici finalmente.

Sono stato a Dolina, nella terra, nell’acqua, sull’argine franoso, arrampicato e dondolante, aggrappato a stoffe meravigliose e spuntoni minacciosi, ho intravisto cose, ho visto con occhi diversi qualcosa che presupponevo di conoscere, ho riaperto il mio sguardo verso l’orizzonte e ho cercato di portarlo oltre. Pipistrelli, conigli, bocche e parole dal sapore di zucchero, sirene, aironi: è stata una continua scoperta, un incedere particolare, un fare i conti con le cose e le persone.

Diana Ligorio ci porta nella mente e negli occhi di Mia, ci accompagna, sembra tenerci per mano in questa storia dal sapore fiabesco. Usa una scrittura coinvolgente che ci fa immedesimare nella piccola protagonista in un racconto che sale di intensità con il passare delle pagine. Se la prima parte ci introduce nella realtà di una quotidianità fatta di mancanze e lacune, voragini lupi e bocche dal sapore di zucchero, nella seconda parte ci porta altrove attraverso una discesa e una successiva risalita che hanno il sapore delle favole.

È riduttivo pensare a questo libro come a una fiaba, sia che lo si pensi per adulti che per i più piccoli. È un romanzo. Un romanzo che ha sì il sapore della favola, l’odore della meraviglia fanciullesca, un racconto con le sembianze dell’avventura, ma in realtà celato dietro un’apparente giocosità si nascondono temi importanti come la crescita e il cambiamento, la perdita e i rapporti umani, familiari. Racconta con l’innocenza che possono avere solo i bambini la realtà che ci circonda e lo fa con il tono ingenuo e quasi cartoonesco nella prima parte, per poi prendere sempre più coscienza nella corsa verso un mare che ha il gusto non solo della scoperta ma anche di una speciale liberazione dai vari urti della vita della protagonista.

L’autrice dà alla scrittura un ritmo serrato ed estremamente calzante per Mia, riesce in un compito estremamente difficile: quello di inventare una lingua e un linguaggio che si plasmano in maniera perfetta all’età della protagonista e ai suoi movimenti e riesce a far sì che la sua narrazione non risulti mai scontata e banale, ma coinvolgente e intrigante; ci si immerge nel suo pensiero, nella sua mente con la progressiva consapevolezza dei suoi turbamenti e ragionamenti.

Diana Ligorio dà prova di grande efficacia nel corso del libro, non solo per l’inventiva che percorre le parole della protagonista, ma perché è capace di andare più a fondo e mutare la lingua e il pensiero con la maggior presa di coscienza della protagonista. Quello che all’inizio sembra goffo e buffo si tramuta nella lettura nella caratterizzazione di un inizio di maturità.

Un film mi è venuto subito in mente: Stand by me – Ricordi di un’estate di Rob Reiner. È inutile che vi dica che vedrei benissimo una trasposizione cinematografica di questo testo. Magari con la regia di Tim Burton (il primissimo Tim Burton, visto che l’ultimo non riesco ad apprezzarlo), oppure mi piacerebbe vederlo con la bellezza formale di Wes Anderson (regista che non riesco proprio a farmi piacere), in realtà vorrei che fosse uno dei miei registi preferiti a dirigere un eventuale film tratto da questa opera: David Lynch. Lo so, troppo estremo, come anche Leos Carax, ora mi viene in mente David O. Russell solo perché ho visto di recente il suo Amsterdam, oppure Refn! (Copenhagen Cowboy!), ma ora sto andando oltre, sto rischiando di perdermi. Sono sicuro che nel gioco tra realtà e fantasia, gioco, avventura e crescita ognuno di voi saprà trovare le immagini necessarie durante la lettura di questo bel libro.

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