L’altra metà della vita. Intervista ad Andrea Mattioli
Intervista di Antonio Mari. Le foto presenti in questo articolo sono state fornite dall’autore
Mattioli, partiamo dalla più ovvia delle curiosità. Il titolo del suo romanzo, “L’altra metà della vita”, condensa da un lato le tematiche del testo (dall’amore/antagonismo tra i protagonisti alla distanza fisica e morale cui conduce l’esistenza), dall’altro riecheggia quello di un film del 2001, “L’altra metà dell’amore”, diretto da Léa Pool. Anche lì il rapporto strettissimo tra giovani dello stesso sesso si intrecciava con questioni delicate come il tema degli abusi e delle dipendenze. Da dove è venuta l’ispirazione?
L’ispirazione nasce dall’idea filosofica di Kierkegaard, quella della mancanza di scelta. Mi è sempre piaciuta l’idea di raccontare una storia che ruotasse attorno alle scelte e alle loro conseguenze, sottolineando come, qualunque decisione tu prenda, ti mancherà sempre l’altra metà. È una sensazione di mancanza a cui non siamo educati e che quindi non riusciamo mai a metabolizzare del tutto. Alla base di tutto, però, c’è una scelta tragica, come nel mito di Edipo: una vita segnata da un destino avverso e inevitabile, di cui nessuno ha colpa.
Quando è iniziata la sua storia? C’è un momento in cui ha deciso di dar corpo a caratteri così intensi, stagliati su uno sfondo che, non a caso, porta il nome di una città imprecisata, “T.”, a marcare il carattere universale e potenzialmente riproducibile – ritrovabile ovunque…
La storia del romanzo è nata anni fa, prima ancora di affrontare il tema del suicidio nel mio libro: Lui. Ho sempre sentito il bisogno di trattare tematiche forti, raccontare le vite degli “ultimi”. Gli emarginati, quelli che lottano contro un destino avverso, sono ovunque intorno a noi, ma spesso non ce ne accorgiamo perché siamo troppo presi dalle nostre vite. Perché non li vediamo? Bullismo, tossicodipendenza e segreti sono solo parte del mondo nascosto dietro chi è stato escluso, condannato a una vita che non ha scelto. Raccontare queste storie è per me fondamentale, e dopo aver raccontato un suicidio, ho voluto dare voce a chi non ne ha.
Codici, immagini, rimandi letterari e visivi: tutto si tiene in questo suo viaggio tra le pieghe dell’indicibile, di una realtà dolente eppure tanto attuale. Da dove nascono queste intuizioni? Motivi come quello della droga, della violenza, il “malamore” dell’adolescenza trovano qui una sorta di equilibrio di forma e significato…
Domanda molto interessante, e ti ringrazio, Antonio. Come ho accennato in precedenza, ci sono molte persone senza voce intorno a noi. Ci siamo mai chiesti cosa si nasconda dietro a una tossicodipendenza, alla violenza o a tutte le forme di sofferenza? Ho sempre avuto la curiosità di comprendere queste dinamiche, di andare oltre le apparenze e i comportamenti superficiali. Forse il motivo per cui tutto trova un certo equilibrio è che il fondale melmoso da cui emergono questi comportamenti è sempre lo stesso: una parte di noi che chiede distruzione o attenzione.
Per far parlare i sentimenti – dall’amicizia, alla rabbia al senso di colpa – lei sceglie la forma del memoriale, che inevitabilmente porta con sé una visione parziale degli eventi, eppure permette una sorta di immersione nella visione di uno dei protagonisti. Come mai questo bisogno? È legato a una precisa scelta di campo?
La sfida di questo romanzo, se possiamo chiamarla così, sta nel voler raccontare una storia in cui tutti i personaggi potrebbero essere protagonisti. La forma del memoriale è raccontata da Simone perché è l’unico che vive la storia dall’inizio alla fine e può quindi narrarla in modo autentico. La sua visione è quella di chi non comprende appieno gli avvenimenti e trova nel memoriale uno sfogo per i suoi sensi di colpa e le sue sofferenze. È un narratore che si confronta costantemente con l’insicurezza della stabilità. Simone non accetta le norme; vive la sua parte distruttiva in territori di guerra, senza mai fare pace con sé stesso e con le scelte che non riesce a fare. Il suo memoriale diventa così un recettore naturale della storia, anche grazie alla sua professione di giornalista, che gli permette di osservare e raccontare con una lente unica e personale.
Mi piacerebbe sapere qualcosa in merito al suo percorso. Lei è musicista e DJ, oltre che scrittore. Come convivono queste forme d’arte e che peso hanno avuto nel suo agire narrativo?
Il mio percorso artistico inizia da bambino. Amavo raccontare storie e scrivere, e i miei nonni mi hanno sempre fatto ascoltare una grande varietà di musica. Durante l’adolescenza, qualcosa è esploso dentro di me: scrivevo molto e trascorrevo le serate a studiare musica classica, fino all’ingresso in conservatorio. Allo stesso tempo, il lavoro del DJ mi dona l’opportunità di incontrare tantissime persone e storie. Mi piace raccontare il mondo attorno a me, nelle sue sfumature più provocatorie e scomode, proprio come siamo noi stessi dietro le apparenze: spesso scomodi, soprattutto per noi. Credo che ognuno di noi abbia un romanzo da raccontare; è importante farlo, anche per poter essere d’aiuto agli altri.