La ladra bastarda di via Barbieri
Racconto di Rosanna Pontoriero. In copertina “Morning sun” di Edward Hopper, 1952
Gennaio 1943
«Tu non sei che una bastardella, neanche tua madre ti ha voluto. Ringrazia Dio…. che c’è qualcuno che ti campa!», mi disse una volta con sdegno e voce bassa la signora Agata. Negli orfanotrofi si cresce soli, cara Nina, lì non sei figlio di una società, sei uno scarto: agli occhi del mondo non servi e non vali. In quel momento Nina era più fredda di quelle quattro mura sporche, piene di scritte, dove tra una linea e l’altra parlava forte l’essenza del disagio, della sofferenza, della solitudine, della paura, dell’umanità. In carcere si sentono le voci dei cittadini mancati, spesso uomini amputati, bambini mortificati.
Nina e Marietta erano finite in prigione per un piccolo furto, niente di importante: affamate, avevano preso a rubare nei mercati rionali, tutto quello che si poteva prendere. Nina aveva preso poi anche la mano e una sera si era messa nel reggipetto un bracciale di perle della signora Cianini, dalla quale si recava due volte a settimana per stirare il bucato. E così Marietta e Nina, compagne di sventura sin dai tempi dell’infanzia al Carenzani, si erano ritrovate al taglio basso dei giornalini di cronaca: «Ai ferri le ladre di via Barbieri: ritrovato il bracciale della moglie del Commendatore Cianini». E a dirla tutta a Nina piaceva sentirsi la Ladra bastarda di via Barbieri, era stata proprio lei a presentarsi così alle compagne carcerate, come se finalmente la vita si fosse degnata di darle una identità. Il nome, Nina Lazzari, le era stato attribuito d’ufficio, sembrava fosse stata gettata nel mondo per puro caso, senza che con esso avesse alcun legame. Lasciata nel loggione dell’istituto quando aveva tre mesi, forse anche meno, il primo volto che il mondo le aveva svelato era stato quello di Suon Barbara.
Il destino inaspettato
In quel febbraio 1944 Nina, che continuava a scrivere con una incomprensibile avidità, era stata spostata di cella. La sua nuova compagna era una donna più grande, in carcere da parecchio tempo, non c’entrava nulla con i volti e le voci che aveva visto e sentito durante tutto il soggiorno. Si chiamava Elda Verganini e accanto al letto aveva una montagna di libri e pagine spurie di giornali, Nina ne era stata sin da subito affascinata. E, infatti, quei primi mesi del ‘44 assunsero una piega inaspettata. Elda e Nina parlavano, ma più che altro si osservavano molto a vicenda.
«Io sono laureata, prima della guerra lavoravo pure, – Elda nel parlare sembrava ripulirsi – sono stata una delle prime donne a prendere la laurea. Facevo tutto sommato una bella vita: avevo molti compagni, la gran parte antifascisti e sono morti tutti. Devo cacciarmi un peso, mi perdonerai se lo faccio in questo modo, ma guerra e carcere hanno annullato le circostanze. Nina io sono tua madre! ». Elda aveva preso fiato, intenzionata a raccontare tutta la storia.
«Venti anni fa avevo una relazione con un mio professore all’università, che si era appena sposato, eravamo molto innamorati. Quando io scoprì di essere incinta, lui era già partito per gli Stati Uniti con la moglie. Io mi ritrovai in sostanza sola, vivevo in una stanzetta ammobiliata che mi manteneva mio padre, all’epoca non lavoravo ancora. Portai a termine la gravidanza senza che nessuno sapesse, tranne Antonia, quella che era stata la mia balia. Ho partorito in casa di una mammana segretamente e quando avevi qualche settimana Antonia ti portò in Istituto. Io ero consumata dal dolore, convinta che non avrei retto. Neanche mio padre seppe niente, in fondo con la mia famiglia non avevo grandi rapporti. Ripresi gli studi molti mesi dopo e conclusi il mio percorso, non volli più saperne di matrimoni e figli, era il mio modo per continuare ad amare quella bambina».
Nina non batté ciglio, impassibile, nel vuoto di quella gelida stanzetta puzzolente. Non era arrabbiata, ma stranita: non avrebbe mai pensato che sua madre fosse una donna libera, colta, intellettuale. Ne fu fiera. La guardò negli occhi e le strinse la mano con fermezza. Sentì per la prima volta che anche per lei esisteva un legame con il passato e tutto sommato, si trattava di una sensazione meravigliosa.
Ottobre 1949
Le aule erano grandi e soleggiate, la guerra restava ormai sullo sfondo. I sopravvissuti erano pronti a ricostruire la società, magari cambiandola. Nina Lazzari indossava una gonna di flanella stretta in vita, fumava una sigaretta e respirava l’aria bagnata. Si sentiva sulla soglia di un nuovo mondo, stringeva quei suoi appunti scritti in carcere. Si era seduta al quarto posto della terza fila, accanto a un ragazzo vestito di verde con la barba lunga. Era il suo primo giorno di università, il diploma lo aveva preso l’estate prima. Nina aveva deciso: voleva diventare un medico psichiatra.