Lulù

Lulù

Racconto e foto di Caterina Torchio

Non era abituata a sentirsi chiamare amore.
Il tempo dell’amore, per lei, era finito presto, regalandole però la capacità di donarlo agli altri.
Ma non a chiunque. Solo a chi ne fosse rimasto povero.
Era la decisione più forte e carica di sacrificio che avesse potuto prendere fin da subito, ma che l’aveva resa forte.

E nel dedicarsi agli altri aveva vinto il potere del dolore, che l’aveva investita violentemente e senza riserve, riuscendo a trasformarlo, saldamente, nella certezza granitica di potercela fare. Così era cresciuta, disinvolta, nel meccanismo univoco e dinamico delle libertà in cui faceva rientrare la necessità dell’accettazione, senza reciprocità e scambio, così da diventar grande da piccola e resiliente nel dramma delle sue fragilità.

La vita le aveva chiesto di scendere troppo presto dall’altalena dei sogni con i quali giocava da bambina, con i capelli raccolti in teneri codini che incorniciavano un viso pulito e facile ad arrossire. Avrebbe continuato a dormir comoda, tenendo stretto, nel lettino, il bambolotto che le aveva regalato la zia Nina. Ma quel bimbo finto in un gioco vero non poteva più restare. E lei doveva far presto a diventar grande. Subito.

Smetterla di piangere di notte quando restava in casa da sola, resistendo alla stanchezza di un giorno che non voleva terminare.
Senza capricci e pretese di attenzioni.
Da subito bambina adulta e per sempre donna bambina.
Con lo sguardo rivolto verso la leggerezza e i piedini poggiati sul peso della vita.
Lei, giuntura speciale di un antitetico e misterioso essenziale, senza colpevolizzare il peso ma cercando la leggerezza.
Rispettando il fardello mentre scriveva la sua libertà e restando agganciata all’essenza dei suoi sogni che diventavano àncora di quelli degli altri.

In casa la chiamavano Lulù. Proprio come aveva da subito balbettato Aldo, il fratellino a cui aveva fatto da mamma.
Era Lucia per tutti, invece. Per i compagni di scuola e per tutti quelli che avevano incrociato la sua breve ma intensa vita.
E in fondo si sentiva più Lulù che Lucia, nell’interazione precoce con quel bambino che sua madre aveva partorito per lasciare orfano dopo qualche mese.
Senza premurarsi di prepararla al dramma della sua assenza, ma pregandola di crescerlo e amarlo anche per lei.

E poi, una sera di maggio l’aveva salutata, mentre il sole, innamorato del giorno, ma sottomesso alla notte, dipingeva una striscia di rosso tra mare e cielo, lasciando un velo di rammarico per quell’abbandono obbligato.

“Guarda mamma, guarda il tramonto: è bellissimo stasera” – aveva detto Lulù rivolgendo l’indice alla finestra che si affacciava sul golfetto di Fiuzzi.
Ma una lacrima indiscreta, aveva violato il segreto della mamma, il suo destino. Era scivolata tradita delle forze che ormai non resistevano più, che si arrendevano, maledettamente, alla malattia.
“Perché piangi?” – aveva chiesto Lulù con il fratellino tra le braccia – “stai meglio oggi, mamma, non mi hai chiesto neppure una delle tue pillole per il dolore”.
Aveva portato il bambino a dormire, subito dopo. Era tardi e iniziava a piagnucolare, sollevando la testina dalla sua spalla.
“Vengo più tardi mamma, stai tranquilla, non appena si sarà addormentato” – le aveva promesso sulla porta.
Ma poi il sonno l’aveva vinta, abbracciata a quel esserino a cui bastava avvertire il suo profumo o sentire la sua voce per aprirsi a un sorriso che ignorava drammi e destini.

Vestita e spettinata, sul letto della sua cameretta.
La porta socchiusa.
Il buio spezzato da una piccola lucina collegata all’interruttore di fianco al comodino.
Il carillon che suonava tirandosi indietro la cordina e un profumo di borotalco che riempiva l’aria.
In quella stanza c’era la vita che si affacciava alla morte, senza riconoscerla e temerla.
I sogni appartenenti ancora al caos dell’infinito, restavano confusi nella rete del destino, intrecciati.
E il sonno rendeva tutto più delicato e vero, accogliendo tra le note dell’illusione le pagine della realtà.

“Rosa, no, no, no… ti prego, no, no, …non lo puoi fare. Svegliati. Apri gli occhi. Non è giusto.”
Un’eco violenta. Un urlo ovattato, soffocato.
Lulù lo sentiva lontano.
Impastato in un sogno che nulla aveva di compatibile con quei No.
Era sulla spiaggia insieme a sua madre e ridevano felici.
Gli abiti di lino bianchi appena sollevati dal vento e i sandali penzolanti da una mano. Correvano, scalze, verso la riva, stringendosi per mano.
Ma quei no ora si avvicinavano più forti. La stavano svegliando mentre lei continuava a sorridere.

Grata alla notte per la spensieratezza di quel sogno e ignara dell’incubo che avrebbe dovuto vivere.
Controllò che Aldo fosse coperto, mentre dormiva sereno di fianco a lei. E si alzò, proprio quando le urla diventavano singhiozzi.
Chiamò suo padre uscendo dalla cameretta. Voleva spiegazioni che smentissero il suo presentimento. Voleva raccontargli del suo sogno sulla spiaggia.

Del caldo di quella corsa sulla sabbia. Delle risa di gioia. Di sua madre. Si aspettava che le garantisse di poterlo vivere presto quel sogno. Che le dicesse che la mamma stava meglio e che quelle urla provenissero dalla televisione accesa. Il corridoio le sembrò il tunnel più lungo del mondo. Non accese la luce. A guidarla c’era il bordo luminoso sotto alla porta della camera chiusa. Corse. Era scalza. Sola. Neppure Aldo tra le bracci a impegnarle la mente.

Continuò a chiamare suo padre, mentre apriva la porta ma l’uomo non si girò. Non si accorse della sua presenza. Abbracciava sua moglie, sollevandola dal letto. La coperta disunita dal lenzuolo, le braccia ciondolanti e un sorriso appena accennato differente da quello che Lulù aveva incontrato nel sogno. Un braccio la sollevava avvinghiandola a sé e la mano destra accarezzava i lunghi capelli che sfioravano il cuscino.

Era morta.
Lulù non pianse, portando le mani alla bocca.
Soffocò, per la prima volta, il respiro al dolore che le entrava dentro più affilato di una lama sottile.
Si rivolse alla finestra che lasciava entrare il buio e al cielo, che quella notte non accendeva stelle, raccomandò la sua. La più luminosa che potesse affidargli.
E mentre un dolore simile a un pugno sferrato allo stomaco le toglieva le forze, senza piangere, maledisse quella notte.

Aveva solo dodici anni.

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