Labirinti e nuovi abissi…

Labirinti e nuovi abissi…

Prose di Rocco Giudice. Foto di Martino Ciano

L’abisso e il labirinto

Tra lo spartito delle mattonelle all’ingresso, gli parve di intravvedere lievi fenditure evocare una frattura più profonda, su cui, però, si reggesse in equilibrio un mondo intero; e quel mondo non poteva dirsi suo più di quanto non l’avvisasse del contrario un senso di vertigine che gli dava un’euforia che sarebbe stato avvilente contraddire.

Cosa sarebbe successo, se avesse oltrepassato quell’ostacolo?

Ogni eccellenza di valore consiste nell’annullare ciò che si frappone: e tutta l’impresa non è più che fare un passo come quello, per spezzare le linee di un assedio o unire due estremi.

Andare oltre, passare tutto e passare su tutto – come se, diversamente, si trattasse di precipitare. Nel farlo, sentire come un dono la propria leggerezza, tante volte reclamata da chi ci denigra fingendo di compiangerci per questo.

Tentato d’inciampare perché a volare non ce la faceva, avrebbe impresso la spinta giusta per disfare quella trama tirando, fino a spezzarlo, il filo che gli avrebbe stretto e trattenuto il piede. Avrebbe, così, sciolto in un istante un nodo, uno dei cappi di un intreccio che fissava le cose saldandole ai nervi – assai più fragili – degli uomini per cui tutto ha una ragione.

Il mondo sarebbe stato finalmente libero. O sarebbe andato in pezzi (sarebbe stato più libero lui?), infranto da quello strappo a una delle sdruciture per cui sembra sia dato esistere agli orli e che è così penoso sfidare, quasi fosse già troppo difficile riconoscere i connotati del mondo che ci è noto – è proprio questo che rende così complicata tutta l’operazione. Era impossibile volare perché quella morsa pareva conficcata nella terra come nulla e nessuno avrebbe mai potuto librarsi nell’aria.

Forse, tutto quello che occorreva al mondo era un nuovo passo di danza. E al cielo, che una nuvola somigliasse allo scarabocchio muschioso che faceva di un muro un cielo calcificato: allora, nessun limite avrebbe minacciato quella unità che non necessitava di legami per un mondo incantato quanto da inventare, se non dovevi scoprirne i segreti.

E intanto, quella linea sul pavimento veniva definitivamente sfregiando un passaggio inavvertito che era divenuto invalicabile quanto ineludibile. Non c’era confine che non fosse un altro mattino. Perché aspettare, allora?

Ma lui saltò lo stesso: e in quel momento, un campanello lanciò l’allarme, come se, d’un tratto, tutto fosse lì per precipitare e farsi buio.

Teratologia minima

Alle quattro di notte, la sveglia getta l’allarme e dice di non vederci chiaro.

Lei tacita l’ordigno sferrando al buio una manata energica in cui affiorano la tenacia infaticabile e la risolutezza drastica di una piccola contadina birmana.

Lui, benché il suo sia un sonno lieve come quello d’un bambino, non sente nulla. Le quattro sono una tregua quasi sacra nell’interminabile insonnia di certe notti: e non era sicuro quella fosse una della serie che concede tregue ristoratrici.

Il mattino è un agguato in piena regola.
Lui apre gli occhi.
Sulla mostruosità.
Non di fronte alle pupille, ma dentro di esse, l’universo non può correre ai ripari.
Lui la scuote con un allarme che non esige d’essere ricambiato con troppa buona grazia.

“Guarda un po’ qua. Dimmi. Che ore sono?”

Lei lascia cadere le parole col contagocce – il silenzio e il mattino devono essere sverniciati con molta attenzione dalla doratura a placche sottili. È solo una piccola falla, ma non potrà più sanare: la corruzione è infinitesimale, ma il centro è dappertutto e la distorsione penetra fino all’età del cosmo.

Perché la lancetta dei secondi gira in senso opposto alla rotazione terrestre: quelle dei minuti e delle ore non lo sanno ancora e vanno avanti per la loro strada. Non si inseguono, fuggono l’una dall’altra: la prima, più lenta della solita andatura; l’altra, a un passo più spedito, quasi d’anticipo, per tagliare la strada all’ultima, rispetto a quanto fosse nella consuetudine.

Non occorre essere preveggenti e la signora lo dice a voce alta, con rammarico e indignazione, l’ingiustizia è troppa: “Nessuno ci crederà.”

Lo dice mentre, sventrata la bestia, sta già staccando le batterie, potendo fare a meno di orologiaio e esorcista.

“Non ci crederemo neppure noi.”

Lui sa che non ha più alcun senso declassare i bioritmi per accelerare o decelerare in prossimità delle quattro e sperare di dimenticarsi dell’insonnia con la facilità di prima – termine, questo, che suona come un capo d’imputazione.

Da allora in poi, ogni giorno sarà fortunato.

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