La novità (Seconda parte)

Racconto di Gennaro Lento

Gi, gi, gi, acca. Acca? Hamed, l’ambulante marocchino che ogni tanto lo riforniva di vestiti firmati con marchi contraffatti. Era da un po’ che non lo sentiva. Elle, elle, emme, emme, emme, O. Pa, pa, peluso, peppe. Petrasso vigile. Eccolo. Appena arrivato al nome desiderato, con un certo compiacimento il pastore Pino bloccò lo scorrimento dello schermo e grazie all’ausilio del solo pollice fece partire la chiamata. Il sorriso, però, scomparve subito dal suo viso quando si accorse che il telefono non rispondeva al comando. Muto.

Il pastore guardò interrogativo l’oggetto, quasi offeso da una simile latitanza di operatività. Riprovò con rinnovata convinzione, quasi che l’apparecchio potesse rispondere con più prontezza a una maggiore pressione del pollice. Niente, polvere di scariche elettriche e basta. Sbuffando prese a maledire la commessa del negozio, che sicuramente gli aveva rifilato un cellulare scrauso, ma appena tornato in paese si sarebbe fatto sentire, guai a loro se non glielo avessero sostituito, che diamine, era ancora in garanzia e costava come un paio di pecore di quelle più sanizze. Sbollita la rabbia, iniziò a grattarsi la sommità del cranio, come faceva sempre quando si trovava di fronte a qualche questione di non facile risoluzione.

Era combattuto tra il desiderio di correre al paese e avvertire gli altri, lasciando incustodite pecore e alieni e l’eventualità di attendere l’arrivo di qualche contadino di passaggio dai poderi vicini e diretto verso casa. Stava ancora valutando le due possibilità quando la soluzione gli si presentò sotto le spoglie di un omino magro come una canna e così curvo che sembrava cercare qualcosa in terra mentre camminava. Era il vecchio Zio Michele, impagliatore del paese, di ritorno dalla corvè mattutina al piccolo podere di campagna dove coltivava le migliori melanzane della zona, famose in tutta la valle per dolcezza e dimensioni, tanto che venivano pure dalla città per comprarle. O meglio, tentavano di comprarle, perché Zio Michele non aveva esattamente un buon carattere e non di rado succedeva che mandasse al diavolo i potenziali clienti se capitavano in un brutto momento.

Giunto accanto al pastore Pino, il vecchio si fermò e alzò lentamente il capo verso l’astronave. Poi si girò verso di lui e con una mano sul fianco gli parlò con la voce bruciata dalle pestilenziali senza filtro che brillavano continuamente tra le sue dita.

– Oi Pì, ce l’hai messa tu ‘sta cisterna in mezzo alle pecore?

Il pastore Pino lo guardò dall’alto in basso, come si può guardare un bambino quando fa una domanda sciocca.

– Che cisterna, zio Miché, questa è un’astronave aliena, viene dallo spazio, – rispose sottolineando ogni sillaba per essere certo che l’altro afferrasse bene il senso delle parole. – Ed è atterrata sulla terra mia, – aggiunse con un certo orgoglio.

Il vecchio sembrava poco impressionato. A uno che aveva visto mandrie di nazisti inferociti correre su e giù per la vallata a caccia di partigiani e soci per appioppargli a viva forza un viaggio premio nei campi di concentramento, quella lattina ferma in mezzo alla radura non destava alcuna emozione particolare, al limite un pizzico di curiosità. Rimase ancora un po’ a guardare quel monumento bizzarro e poi fece per andarsene, che con tutte le cose che aveva da fare non era tipo da starsene là impalato con le mani in mano, neanche se c’erano i marziani. Il pastore lo vide allontanarsi e decise di affidare a lui l’incombenza di avvertire le autorità.

– Zio Miché, me la fate una cortesia?
– Se posso, – rispose il vecchio senza voltarsi.
– Quando arrivate in paese glielo dite ai Vigili se vengono qui a controllare? Io devo restare a guardare le pecore.

Il vecchio agitò stancamente un braccio per aria, in un gesto che poteva voler dire va bene, oppure vai a quel paese. Di certo a quella velocità ci avrebbe messo almeno un paio d’ore prima di arrivare alla caserma dei Vigili. Tanto valeva sedersi ai piedi dell’albero e aspettare, pensò il pastore Pino.

Le incredibili emozioni della giornata gli avevano messo addosso un certo appetito, così che raccolse la bisaccia da terra e ne tirò fuori un involucro di carta spessa che conteneva il menu della giornata, consistente in due grosse fette di pane nero con in mezzo un massiccio strato di frittata alle cipolle. Il profumo del cibo contribuì subito a rasserenarlo. Si sedette con la schiena appoggiata al tronco dell’albero e iniziò a masticare lentamente e di gusto, accompagnando di tanto in tanto i bocconi con generose sorsate di un vino nero come l’inchiostro da una bottiglia che aveva appoggiato alla gamba.

Marziani o no, la frittata alla cipolla di Zia Finuzza conservava sempre il suo fascino e il pastore Pino non l’avrebbe scambiata nemmeno con il cibo più raffinato del mondo cucinato dallo chef più stellato dell’universo. Che ne sapevano loro di roba buona, mica l’avevano mai assaggiata quella frittata, capace che non erano nemmeno in grado di farne una uguale. Chiacchieroni.

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