La fuggitiva
Racconto di Antonella Perrotta
Vago tra le strade di una città che non mi appartiene, ventre di montagne che non mi appartengono, ché io sul mare sono nata, con acqua di mare nutrita e generata, figlia dei figli di quell’acqua salata che contiene isole e vulcani e arcipelaghi, denti in una bocca che schiuma tempeste e affoga pene e malanni e risuscita la calma.
Vago tra le strade come tra i miei tormenti, io, pensiero zingaro, corda di chitarra battente, e quanto è facile vivere per chi coltiva certezze e inneggia alla vita senza tormento, dono di Dio, dono d’amore, dono di quella natura che ci vuole essere sessuati predisposti all’accoppiamento.
Vago con un occhio alla strada, uno ai monti, uno a questo fottutissimo monumento che mi sta di fianco, mentre passanti avvolti in piumini e cappotti mi sfilano davanti con lo sguardo spento di chi ha fretta di andare e solo ad andare sta pensando.
Non riesco a dare una forma ai miei tormenti e, forse, è questo il tormento più grande ché è più facile ragionare con chi si conosce. Penso alle mie cicatrici, alla mia carne squartata e ricucita come fosse carne da macello ché un bravo medico non deve avere pietà e un corpo è uguale a un altro, muscoli, nervi, tendini, ghiandole, grasso, cute e sottocute, e chi se ne frega di chi lo indossa. Penso a chi non ha voluto guardarle e a chi le ha baciate, a chi mi ha allontanato e a chi mi ha cullato, a chi ho allontanato e a chi ho cullato. Penso troppo e penso male, in questo vortice di tempo e di giorni che non conoscono più emozioni, mentre continuo a sorridere ed essere gentile ché fare bene non è peccato e non è colpa da scontare, ma com’era bello quando il cuore palpitava e il corpo si eccitava, quando non ci si accontentava di sopravvivere al calduccio di una certezza.
“Allontana dalla tua vita le situazioni e le persone che ti procurano depressione e disperazione. Scegli di stare con chi ti fa battere il cuore. Insegui le passioni che lo accendono. Non adagiarti. Non accontentarti” dicevo, mentre il normale ordine delle cose mi sfilava davanti. Casa, lavoro, aperitivo, pizza, chiacchiere, voglio sposare un medico o un magistrato, così dicevano, ma io il lavoro lo lasciavo e il medico e il magistrato pure e vivevo in una dimensione salvifica in cui ridevo di me, dei miei malanni, delle mie stronzate, degli altri e della vita intera. E il cuore palpitava e il corpo si eccitava ed era vivere e non sopravvivere.
Perché non può essere ancora così?
Non si muore soltanto per vecchiaia e malattia, perché le cellule del nostro corpo si sono consumate e il nostro tempo pure. Si può morire ogni giorno, un pezzetto al giorno, se al cuore non si dà nutrimento. E io mi sono tormentata abbastanza, ho già scontato le mie mancanze, ho riconosciuto le mie colpe e mi sono attribuita pure quelle che non avevo, scontate anch’esse in un
tormento di redenzione di cui non avrei avuto bisogno. Sì, le ho scontate, le mie mancanze, e pure quelle degli altri che gli altri non hanno saputo riconoscersi e hanno lasciato scontassi io.
Merito di non morire pezzetto per pezzetto. Merito di vivere e non di sopravvivere. Merito di ridere ancora di me, dei miei malanni, delle mie stronzate, degli altri e della vita intera.
Un raggio di sole illumina la cima dei monti, mentre la bruma si va dissolvendo ed è uno squarcio nell’aria. Un bip sul cellulare mi distrae. È un whatsapp di una mia amica. “Fatti trovare in casa quando rientro. Andiamo al lago.” Sorrido, come la stupida emoticon che le invio per risposta.
Sì, andrò al lago e in qualunque altro posto. Spegnerò chi vorrà spegnermi. Ascolterò soltanto parole che sapranno dei sussurri degli amanti. Guarderò ogni cosa prima che i miei occhi si chiudano. E il cuore batte, batte e mi tiene in vita. E la città è bellissima adesso, anche questo fottutissimo monumento che mi sta di fianco.
Sì, merito tutto il bene del mondo. Merito tutto il bello del mondo.
Domani, torno al mare. Domani, torno a casa.