La custodia dell’angelo di Alessandra Saugo

La custodia dell’angelo di Alessandra Saugo

Recensione di Martino Ciano. In copertina: “La custodia dell’angelo” di Alessandra Saugo, Wojtek edizioni, 2025

Poesie? Prose? No, semplicemente la parola che si frantuma con la realtà. La deflagrazione di ogni relazione si riempie di potere descrittivo, di necessità dell’espellere dal cuore e dall’anima il veleno. È questa anche la funzione dell’arte?

Aprire un discorso in tal senso è difficile, richiederebbe tempo e spazio. Ciò che resta di “La custodia dell’angelo” è un grumo che il lettore accoglie, che pian piano prova a portare dentro di sé a piccoli pezzi. La scrittrice Alessandra Saugo, morta nel 2017, ha lasciato tante pagine e delle sue vicende nella fabbrica culturale italiota ancora se ne parla sul web.

Dopo le sue vicissitudini nel mondo dell’editoria, in questo libro postumo tutto si concentra sul suicidio della madre e sui tradimenti del marito. Lei, malata e con il fiato della morte sul collo, ribatte e replica a qualcosa di ingiusto. E più si sente questa denuncia dell’onta subita, più si fa spazio un’altra sensazione: quella voglia di acciuffare il perché di tutto questo.

Ecco che Saugo si dimena come Giobbe, ma non chiede di parlare con Dio, ma con i suoi carnefici, o presunti tali. E nonostante nei confronti della madre il tono sia dolce, quasi remissivo in alcuni punti, sottotraccia sentiamo il grido disperato di chi non può e non potrà mai accettare quella scelta.

I versi giocano con le sensazioni, mischiano le parole. La prosa viene lasciata senza punteggiatura, come se quel flusso di coscienza sia universale. Non ha bisogno di traduttori, non chiede analisi. Ogni parola è autentica e condivisibile, è terribilmente umana. Succede così che anche una recensione non possa fare altro che testimoniare, perché qui non ci sono “significati” da trovare in cielo, tra le nuvole o un improvvisato iperuranio.

“La custodia dell’angelo” di Alessandra Saugo va oltre quello che potremmo definire auto fiction. Non è autobiografia, tantomeno estensione del proprio dolore; addirittura non chiede sostegni e non vuole aggiudicarsi il “primato” della sofferenza umana. Questo libro è una sorta di invocazione, se non un salmo scritto nella solitudine e poi abbandonato in un cassetto. Eppure, porta con sé la sospensione del giudizio e la ricercatezza di uno stile; entrambi questi elementi sono capaci di affascinare e di guadagnarsi un posto tra la letteratura.

Pensato così o meno non ha importanza. La caratteristica di questo libro è che parla a un dolore che ciascuno comprende. Ogni pagina è chiara, non ha bisogno di orpelli. Qui ogni cosa è in uno stato di sublimazione. L’ego quindi è stato oltrepassato.

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