Quel che resta del giorno. Riflessioni a margine sul romanzo di Kazuo Ishiguro

Quel che resta del giorno. Riflessioni a margine sul romanzo di Kazuo Ishiguro

Recensione di Giovanni Caporale. In copertina

Nessun romanzo sembra più inglese di Quel che resta del giorno, pubblicato nel 1989 dal futuro premio Nobel Kazuo Ishiguro, nato a Nagasaki e cresciuto in Gran Bretagna, nonché reso celebre dal film che ne è stato tratto nel 1993 da James Ivory, con protagonisti Anthony Hopkins ed Emma Thompson.

Il romanzo, in lingua inglese, ha per protagonista un perfetto maggiordomo inglese al servizio di un Lord inglese con prati all’inglese, tazze da tè, discorsi formali, in un ambiente snob e classista che più inglese non si può.

La storia si svolge integralmente in Inghilterra, la prima parte nel periodo antecedente e la seconda in quello appena successivo alla seconda guerra mondiale. Il nobile assistito dal maggiordomo è filonazista così come gli abituali invitati del padrone di casa: saranno tutti pubblicamente screditati con lo scoppiare del conflitto. Il maggiordomo, sicuramente uomo di scarsa iniziativa intellettuale e sentimentale, dopo lo scandalo si rende conto di aver sprecato la sua vita a servizio di un farabutto e di non essere riuscito ad esprimere i suoi sentimenti, perdendo la donna che amava. Alla domanda di un giornalista sul rilievo della cultura d’origine dell’autore nel romanzo, Ishiguro rispose irritato: “il Giappone non c’entra nulla”.

Ebbene, contro ogni evidenza, io sostengo che il romanzo parla del Giappone, anzi rappresenta alla perfezione la cultura e la mentalità giapponese. Per comprenderlo dobbiamo partire un po’ da lontano, dalla concezione dell’uomo in occidente e oriente nelle rispettive religioni. Orbene, le religioni occidentali monoteistiche sembrano basarsi sull’assunto che gli esseri umani siano creati a immagine e somiglianza di Dio e siano divinità in miniatura. Il fine di avvicinarsi il più possibile alla divinità li porta a elevare fino alla perfezione l’ego.

I buddhisti-shintoisti credono che, per raggiungere la vera libertà spirituale, ci si debba liberare da tutti i karma o desideri dell’ego e da connessi interessi, dalla speranza. La vera libertà o realtà assoluta si raggiunge solo abbandonando l’ego, annullando la propria identità. “Molti è uno. Uno è molti”; “Essere è non essere”; “Essere è Mu (nulla). Mu è essere”; “La Realtà è Mu. Mu è la realtà”; “Ogni cosa viene dal Mu e viene assorbita nel Mu”.

Nella cultura giapponese Io è Nulla. L’Uno è molti. L’Io è un Io collettivo. Non a caso i giapponesi pospongono il nome al cognome: prima l’appartenenza familiare e poi l’identità personale. Dunque, l’individuo è nella cultura giapponese un elemento trascurabile all’interno del gruppo. Ciò che conta è il gruppo che a sua volta è all’interno di un altro gruppo, che è all’interno di un altro gruppo fino al gruppo più grande: i giapponesi. Perdere l’appartenenza al proprio gruppo significa perdere l’identità e può portare al suicidio.

Un artista nipponico, almeno fino a tempi recenti, non pensava di esprimere se stesso con l’arte, perché ciò che esprimeva era una cultura di cui si sentiva parte. I giapponesi non esprimono i propri pensieri e non hanno reazioni spontanee non perché siano bugiardi, ma perché la loro opinione e i loro sentimenti personali non sono rilevanti: si comportano come si devono comportare secondo le fittissime regole sociali che disciplinano ogni comportamento. Secondo la formazione classica, sorridono quando devono sorridere, salutano quando devono salutare, si vestono come si devono vestire,  scrivono e dipingono come devono scrivere e dipingere e cioè secondo regole che identificano la propria scuola di appartenenza.

Da un punto di vista occidentale appare incomprensibile che l’arte possa essere espressione di un Io collettivo e di ferree regole. Nessun insulto sembra essere peggiore in occidente per un artista che sentirsi accusare di non essere originale. L’arte sembra essere, anzi racchiusa, in quel quid di personale che lo distingue dagli altri. L’arte occidentale vede nell’artista una sorta di demiurgo creatore tanto più degno di ammirazione quanto più crea dal nulla.

In Giappone, l’arte è tale in quanto inquadrabile all’interno di regole ben definite e, anzi, deve essere replicabile e imitabile quanto più possibile: l’opera è il contributo dell’autore alla cultura di appartenenza, alla sua arte e alla sua scuola. Insomma, l’arte è tale solo se riconosciuta dal gruppo di appartenenza: non è dell’autore ma di tutti… anche per questo i giapponesi sono facili al plagio artistico e industriale. Non comprendono cosa ci sia di male a partire dalle idee altrui e perché ogni autore debba simulare di non avere né padri né madri.

Il cambiamento avviene, ma all’interno delle singole scuole, secondo dinamiche interne che non escludono l’innovazione e, come si vedrà tra breve, l’imitazione di altre culture.

In questa stampa giapponese del 1886 mi ha colpito molto il personaggio vestito come un ammiraglio europeo: è l’Imperatore del Giappone. Dal 1635 al 1853 era stato vietato l’attracco alle navi straniere. Eppure, dopo due secoli di clausura culturale, in 33 anni la cultura giapponese si era già così occidentalizzata da poter mostrare un Imperatore vestito da Ammiraglio inglese.

Il punto è che il Giappone non può avere il culto della propria originalità perché una cultura nipponica originale non esiste.

Se si chiedesse a cento occidentali quale delle culture sia più antica, se la cinese o la giapponese, 99 occidentali su 100 risponderebbero che sono più o meno coeve. E invece non è così: la scrittura cinese ha almeno 3500 anni e ai tempi dell’Impero Romano, sotto la dinastia Han, la Cina era già grande impero e aveva generato una cultura complessa e splendida paragonabile a quella occidentale se non superiore. Il Giappone, invece, fino al sesto secolo dopo Cristo non esisteva come concetto, non esisteva come Stato, non esisteva come cultura e non esisteva come scrittura. La scrittura giapponese nasce come imitazione di quella cinese, importata e adattata da scriba coreani. Fino al 1200 1300 la lingua ufficiale della corte giapponese era il cinese e gli atti ufficiali venivano scritti in cinese.

La cultura giapponese nasce imitando la Cina e continua imitando le altre tradizioni culturali. In definitiva la cultura giapponese ha l’imitazione nella sua tradizione: imitando l’altro ribadisce di essere giapponese.

L’Io in queste condizioni trova difficoltosa l’espressione. Un giapponese, nella cultura tradizionale, per dire ciò che pensa, lo fa attraverso altri senza mai tradire i suoi veri pensieri né mostrare i suoi sentimenti in modo diretto. Nelle poesie d’amore la parola amore è rara; si parla delle stagioni, della frutta. Nel Genij Monogatari, il Principe seduttore corteggia donne nascoste da paraventi con dialoghi così sottilmente allusivi da essere incomprensibili per un occidentale: per parlare d’amore parlano di frutta, di stagioni, di tutto tranne che di amore. Non può stupire a questo punto che il teatro giapponese sia un teatro con delle maschere fisse inespressive che sono palesemente altro rispetto a chi recita… solo dietro una maschera possono parlare liberamente, solo dietro un altro personaggio possono esprimere il proprio io (…solo dietro il paravento di un’altra cultura possono parlare della propria).

Fin qui sembra che abbiamo parlato d’altro, invece abbiamo fornito tutti i presupposti per comprendere il senso dell’opera di Kazuo Ishiguro. Sappiamo che i giapponesi sono prima di ogni altra cosa giapponesi e per questo non criticano mai il gruppo di appartenenza, non esprimono mai le loro idee e i loro sentimenti. Ma cosa pensa Kazuo Ishiguro? Qualcosa si capisce da uno dei suoi primi romanzi.

In Un artista del mondo effimero, ambientato in Giappone, un anziano pittore, all’indomani della seconda guerra mondiale, ripensa al proprio percorso artistico e umano. Rivedendo alcune scelte passate, attraverso il protagonista si esprime una critica velatissima al sistema anteriore alla seconda guerra mondiale, che voleva un rispetto assoluto delle scelte dell’Imperatore, anche a costo di chiudere gli occhi di fronte a errori e orrori; il tutto in poche sibilline frasi: senza una maschera inglese i pensieri sarebbero troppo facilmente riconducibili all’autore. Infatti, un giapponese è veramente se stesso solo quanto è qualcun altro. L’Io non si esprime mai direttamente, ma solo dietro maschere. Quanto più perfetta è la maschera tanto più si esprime liberamente.

Visto in quest’ottica, Quel che resta del Giorno, si svela come un gigantesco gioco di maschere. Lo scrittore di origini giapponesi Kazuo Ishiguro riesce a portare il suo attacco radicale alla cultura giapponese ma solo da lontano e mascherato da tutt’altro, in una perfetta imitazione della cultura inglese. Dietro il culto delle forme, nel maggiordomo inglese e nella sua subalternità al Nobile collaborazionista, non c’è altro che il popolo giapponese subalterno all’Imperatore, colpevole di avere portato alla distruzione il Giappone, con la sua alleanza con Hitler e Mussolini.

Allo stesso modo, l’incapacità del protagonista di esprimere emozioni è una critica al modo giapponese di porsi di fronte al sesso e ai sentimenti, negandoli pertanto a se stessi e all’espressione diretta. Insomma, Quel che resta del giorno è giapponese esattamente nella misura in cui se ne distacca totalmente. Persino la cultura nipponica viene attaccata alla giapponese, ossia parlando di tutt’altro travestito da altro.

 

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