Napoli in laterale. Riflessioni sparse nella città degli “strappi”

Napoli in laterale. Riflessioni sparse nella città degli “strappi”

Articolo e foto di Guido Borà

Ogni anno, tra il 26 dicembre e il 2 gennaio, a Napoli, nella Chiesa del Carmine al Mercato, è esposto un crocifisso ligneo che nel 1439, secondo la tradizione popolare, avrebbe inclinato il capo per evitare un colpo di cannone. Inizia, così, negli ultimi giorni di dicembre dell’anno scorso, con questa tappa insolita, una gita a Napoli. Il complesso monumentale del Carmine si trova in un quartiere cittadino in passato molto vivace, sede di storici grossisti di biancheria e altri generi di consumo.

Negli ultimi trent’anni, dopo la costruzione del Cis di Nola, il “Mercato” si è gradualmente svuotato, per cui ai ricordi di un quartiere sempre in fermento si è contrapposta la realtà desolata di saracinesche chiuse – secondo una recente stima della Confcommercio avrebbe chiuso quasi la metà degli esercizi – e di grandi spazi vuoti con poche persone in giro.

La desolazione della piazza mi suggerisce un primo spunto di riflessione su un fatto piuttosto noto e dalle interpretazioni molto controverse: il Mercato fu teatro della feroce rappresaglia borbonica nei confronti dei sostenitori della repubblica napoletana del 1799, che provocò uno strappo, mai pienamente ricucito, tra il popolo dei “lazzari” e le classi colte del Mezzogiorno.

Il 20 agosto 1799, Eleonora de Fonseca Pimentel fu giustiziata e, come scrisse Enzo Striano nel romanzo Il resto di niente, “all’impiccata non resta in pugno meno che il niente: il “resto” che si deve al niente”. Risalendo per via Lavinaio, così chiamata perché in passato le acque piovane defluivano abbondantemente lungo le mura della città, è stato inevitabile osservare le condizioni fatiscenti e misere delle vie traverse.

Qui sono incarnate le diseguaglianze profonde all’interno dello stesso quartiere, non solo tra quartieri; una caratteristica peculiare di questa città, porto di mare, dove zone agiate e meno agiate si intrecciano e si fondono quasi indistintamente. “Una città strana, misera e insieme ricca, soavemente colorata”, scriveva Anna Maria Ortese nel romanzo Il cardillo addolorato.

Poiché ci troviamo non troppo distanti dal luogo dove sorgevano i Granili, un imponente edifico pubblico borbonico che ospitò gli sfollati della Seconda guerra mondiale, demolito negli anni ’50 del secolo scorso, ripensiamo di nuovo ad Anna Maria Ortese e alla sua opera di rottura, Il mare non bagna Napoli.

Uno dei racconti intitolato “Il silenzio della ragione” è un pesante atto di accusa nei confronti di un gruppo di “giovani scrittori” di sinistra, napoletani e no, attivi nel secondo dopoguerra. Riflusso, disimpegno, poca incisività, progetti editoriali astratti o campati in aria, voglia di emigrare a Roma o a Milano per aspirare a “silenziose carriere”.

Lo strappo con gli intellettuali, tra cui Luigi Compagnone, Luigi Incoronato, Michele Prisco, Pasquale Prunas, Domenico Rea, Vasco Pratolini e Raffaele La Capria, fu insanabile e l’Ortese non tornò mai più a Napoli. Dopo più di quaranta anni, l’autrice ammise, anche se la lucidità di quel giudizio resta intatta, che la stesura dei racconti fu influenzata da “un’autentica nevrosi” di origine metafisica: “il Mare era uno schermo su cui si proiettava il doloroso spaesamento della persona che aveva scritto il libro”.

Tornando al nostro itinerario, dopo aver visitato il complesso dell’Annunziata, noto per la famigerata ruota degli “esposti”, raggiungiamo Castel Capuano. Imboccando via Carbonara, anche questa una strada laterale, ai margini, dove nel medioevo si accumulavano e bruciavano i rifiuti della città, sulla destra si incontra la chiesa di San Giovanni a Carbonara, un meraviglioso complesso in stile gotico rinascimentale, riaperta di recente al pubblico.

Chi conosce la città sa che queste zone sono relativamente marginali, al confine con la ferrovia e la zona industriale, vie laterali ai bordi di quartieri impenetrabili come il “buvero” di Sant’Antonio, che costeggiano le vecchie mura di cui sono rimaste solo alcune porte e dove la presenza dei turisti è scarsa.

Alla fine del nostro vagare, per strade che appena dieci anni fa erano sconsigliate a chiunque non fosse stato della zona (vedi vico san Gennaro o l’Anticaglia), siamo sbucati in via dei Tribunali, dove siamo stati travolti da una moltitudine di turisti ammassati all’ingresso dei ristoranti il cui interesse principale era la pizza e il cibo da strada.

Fin qui nulla di nuovo di quello che è il discusso e discutibile “fenomeno Napoli”. Una città fino a 50 anni fa di natura essenzialmente amministrativa, industriale, di servizi, base di un comando militare USA, il cui centro storico era saldamente in mano alla camorra, e ora meta turistica tra le più popolari in Italia. Ermanno Rea, nel suo intenso romanzo Mistero napoletano, era convinto che la massiccia presenza della VI flotta statunitense avesse segnato per sempre il destino di Napoli, favorendo il contrabbando e la prostituzione e rafforzando le basi della camorra.

La classe dirigente del Pci di allora, fortemente legata allo stalinismo, non riuscì o non volle affrontare il problema e mancò l’occasione di agganciare la città al progresso e alla modernità. Un’occasione che, sebbene parzialmente e in modo criticabile, non si è lasciata sfuggire la classe dirigente dalla prima metà degli anni ’90 del secolo scorso (anche quella più recente ha avuto un ruolo nel rilancio ma non ne paleremo). Avendo avuto contezza dello sterminato patrimonio monumentale, per la maggior parte invisibile agli stessi napoletani, lo ha gradualmente aperto al pubblico, intercettando la forte spinta propulsiva che partiva dal basso.

Qui emerge il ricordo affettuoso di un docente di filosofia del primo liceo di nome Gaetano che, a quei tempi, abitava in Vico storto al Purgatorio, una traversa di via dei Tribunali. Nelle domeniche d’inverno del 1982 accompagnava alcuni dei suoi studenti in alcuni luoghi del Decumano maggiore, allora considerati inaccessibili, come la chiesa delle anime del Purgatorio, o anime “pezzentelle”, oppure agli scavi romani nel sottosuolo della chiesa di San Lorenzo “dall’abside in raffinato gotico francese”, oppure ancora il chiostro dell’Archivio notarile o la basilica di San Paolo Maggiore. Fortemente convinto che il patrimonio culturale avrebbe potuto trainare il rilancio e il riscatto di Napoli, disperava, tuttavia, che questo potesse accadere a breve a causa della natura intrinsecamente violenta della città.

Vedete in alto? Riuscite a scorgere i fregi “apotropaici” sulla facciata della chiesa del Gesù nuovo? Qui raccontava perplesso, combattuto tra teodicea e superstizione, il cardinale Corrado Ursi, negli anni ’70, chiuse al pubblico la chiesa del Purgatorio con la speranza di arginare, invano, il rito profano delle anime “pezzentelle”. Guardate lì per terra, alla base di quel palazzo secentesco, non notate dell’opus reticolatum? Che sovrapposizione di stili, esclamava entusiasta, come se fosse sempre di fronte a una nuova scoperta.

Superati i Tribunali, passando vicino a piazza Bellini, nel cui centro c’è un’area con degli scavi di mura preromane, è stato inevitabile ricordare che quello era il luogo dove si davano appuntamento un’amica entomologa e il suo “plumber”, ossia qualcuno che stava intervistando, la cui identità doveva restare anonima. Qualche anno fa Lisa stava conducendo uno studio su Napoli e, a questo proposito, mi chiedeva con insistenza perché fosse considerata una città “povera”.

Ripeteva ostinata che, al contrario, le sembrava molto vivace “c’è sempre tanta gente in giro ed è densamente infrastrutturata”. Ho ribattuto, abbastanza irritato, come la vivacità non fosse da considerare un parametro credibile di misurazione della ricchezza, mentre l’infrastrutturazione, che era un’eredità del passato, dimostrava come la presenza di strade, di ferrovie, di porti senza legalità e certezza del diritto non fosse sufficiente per lo sviluppo economico.

Ripensando, tempo dopo, a quella lunga conversazione, ho concluso che anche qui si fosse consumato un piccolo ma significativo “strappo”. Uno strappo che è lo specchio dei nostri tempi, tra il pensiero genuinamente meridiano di Lisa e quello economico dominante, senza che si fosse trovato un punto d’incontro costruttivo.

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