La zona di interesse. Martin Amis e “il confine della disumanizzazione”
Recensione di Antonio Maria Porretti. In copertina “La zona di interesse” di Martin Amis, Einaudi, 2015
“Gli uomini soli senza appoggio di altri non hanno mai potere a sufficienza per usare la violenza con successo>>, scrive Hannah Arendt nel suo saggio”
Sulla Violenza (Guanda Editore, traduzione a cura di Savino D’Amico).
Un postulato rivelatosi valida chiave di accesso per addentrarsi nella lettura del romanzo di Martin Amis, “La zona d’interesse”, pubblicato da Einaudi nel 2015 e valorosamente tradotto da Maurizia Baldelli.
La ragione è molto semplice: l’Olocausto poté perpetrarsi perché ricevette l’appoggio, il consenso e la legittimazione, da parte di una Germania mai rassegnatasi alle umiliazioni subite con la sua sconfitta nella Grande Guerra. Di una nazione dunque in cerca di riscatto, ossessionata e dominata dal miraggio di una purificazione da quella débâcle, pervasa da una pulsione di morte che il verbo nazista avrebbe sfogato contro gli ebrei. I colpevoli designati e da punire con la loro estinzione.
È attraverso questa prospettiva che Amis affronta il tema della Shoah, scavandosi una nicchia che lo separa nettamente dalla maggior parte delle narrazioni gravitanti intorno a tale voragine storica, come una cappella dislocata in una zona più nascosta, meno frequentata della cattedrale in cui è inserita.
Attraverso l’eloquenza allucinata con cui lascia sciamare i suoi personaggi, si ha l’impressione di vedere alfieri mossi lungo le diagonali di una scacchiera dove l’obbedienza è l’ unica strategia di vittoria possibile, concepibile. La coscienza è un lusso che non possono permettersi di avere, o a cui aspirare, per convivere a stretto contatto con quella fabbrica di morte che fu Auschwitz.
Golo Thomsen, Boris Eltz, il Kommandant Paul Doll, ma anche sua moglie Hannah e Smzul, l’ebreo a capo dei Sonderkommando, ossia degli untori di quella strage pianificata come una produzione industriale del più alto prestigio e reddito, si negano come esseri umani; si nascondono a sé stessi, anche quando sono soli, perché schiacciati dal colosso di un potere teso a spersonalizzarli.
Amis ce li schiera sotto gli occhi come documenti in carne e ossa del Terzo Reich, ricorrendo a ogni effetto fornitogli dal registro di un implacabile grottesco tale da rendere ancor più smisurato e incomprensibile quell’orrore.
Non è difficile immaginare che il riaffacciarsi di questo titolo fra scaffali e vetrine di libreria, sia legato al film di Jonathan Glazer. Che non è la sua puntuale trasposizione cinematografica, condividendo – a parte il titolo – i luoghi di ambientazione della storia.
Personalmente, posso dire di aver trovato la versione cartacea ancor più raggelante, per via di una lingua che si fabbrica come uno specchio che più deforma le immagini in esso riflesse, più ne restituisce l’esattezza e la precisione dei contorni. Senza possibilità di aggiustamenti.
“Immagini quanto sarebbe orribile se da quel posto nascesse qualcosa di buono”.
Dichiara Hannah Doll a un innamorato Golo Thomsen che per tutta la narrazione insegue il sogno di avere una storia di amore con lei.
Negarsi una umanità, significa anche negarsi la possibilità di avere e coltivare sogni.