La figlia di Ophis
Prosa di Giuseppe Bella. In copertina: “Crazy easy chair – A woman like Ofelia” di Calusca, anno 2000
Questa non è una sedia. È un inganno; un oggetto confortevole ma folle. Può essere mai sensata una sedia così fatta? È uno scheletro – un traliccio. Non vi è traccia di imbottitura: non vi è schienale, non vi è seduta. E tuttavia sembra emergere dal nulla, e fluttuarvi; con stilizzata potenza, sorge simile a un altare. Nel suo centro magico io mi manifesto. Non vi è nulla oltre al mio corpo; se ancora posseggo un’anima, essa è tutta incarnata in questa massa catramosa, oscura, senza grazia, percorsa da rossi bagliori – come da una lava sanguigna. Come braci nel nereggiante carbone.
Sono nuda: non mi compiaccio di questo, ma offro la mia nudità con insolente malagrazia. I miei seni ricadono flaccidi su un addome rigonfio, adiposo, infiammato. Il mio pube è un triangolo di nerume. Le mie cosce, due tozzi monconi. Il mio volto è mascolino, una ciocca di capelli ricopre il mio occhio, indurendone lo sguardo. Io attendo.
L’inquietudine e la pazzia che mi indussero a scivolare in acque rapinose si sono, oggi, risolte in pazienza per intero, in una smisurata capacità di aspettare. Nemmeno un solo istante i miei occhi si distoglieranno dai vostri sguardi, su di essi non si abbasseranno mai le palpebre, sul mio viso mai scenderà la stanchezza, nessun cenno di sbadiglio incresperà mai le mie labbra, né distenderà la mia bocca, nessun vuoto improvviso annebbierà la mia vista. Mostrerò in eterno questa identica espressione, cupa e risentita.
Il ruscello dove si è estinto il mio antico dolore è oggi una palude. Sono Ofelia, figlia di Ophis, che comanda i serpenti. In una delle mie incarnazioni sono stata una fanciulla. Fragile, inerme preda delle passioni. Amore filiale per Polonio, fraterno per Laerte, umbratile per Amleto. Io che per natura avrei dovuto imprimere sulle loro carni i miei morsi, inoculare il mio veleno, sono stata travolta dagli eventi.
La tragedia mi ha serrato nelle sue spire e l’acqua limpida ha occluso i miei polmoni. Nei cicli incessanti dei miei ritorni era previsto che dal mio nome scaturisse quanto di soccorrevole e delicato dorme in ogni donna: Opheleia è colei che aiuta. Ma con la mia morte ho estinto questi obblighi generosi. Oggi riemergo da un inferno lutulento – non c’è pietà nel mio cuore. Oggi posso solo udire i sibili e le sobillazioni di Ophis, il crudele – mio padre.
La mia mano si contrae, adunca. Nel mio ventre cova la fiamma. Il mio sguardo invita e insieme allarma. Un’ustione mortale subirà colui che oserà varcare la mia soglia.