Mi hai raccontato la tua estate
Racconto e foto di Martino Ciano
È alle porte l’estate delle meraviglie irrisolte, ancora socchiuse,
non del tutto sbocciate, nascoste alla vista, ma non al desiderio.
Sento la tua voglia, la calda bava che invade il cuore;
lava incandescente incenerisce la volontà
come quando scoppia il primo amore.
Tu giocavi con la noia, stavi seduta su una panchina, fumavi, annusavi estasiata l’orizzonte. Il mare si univa al cielo: blu con blu. Qualche nuvola bianca: niente di esaltante. Troppa tranquillità, troppo silenzio; cercavi una scusa per litigare con qualcuno o con qualcosa, perché ci sono giorni in cui non digeriamo che tutto scorra senza sussulti.
Cercavi il motivo che ti portasse a chiamare in tuo soccorso la rabbia. Nulla, non ne trovavi; sul Lungomare tutti camminavano composti, persino i cani erano attenti a non sporcare. Allora incominciasti a scavare dentro te stessa, per cercare l’origine di quell’ira. Ne eri certa: era sepolta in te, neanche tanto in profondità. Così hai buttato a terra la sigaretta, mentre l’imbrunire ridisegnava il mondo. Il mare piatto era una lastra di cemento; ti spaventava quella massa immobile: ti inghiottiva il cuore.
Era il silenzio il tuo problema, perché la morte è assenza di suono, di chiasso; eppure avevi sentito dire che chi per qualche minuto era trapassato, apparentemente deceduto, durante il suo volo extrasensoriale era stato accompagnato da una melodia dolce, come di ninnananna. Ma per un errore, comune a tanti, soprattutto agli uomini che frettolosamente si leggono dentro, per te il silenzio era quello delle cose e, per te, anche le persone erano cose.
Tu quello odiavi, perché ti ricordava quando da bambina tuo padre e tua madre litigavano a bassa voce, per non farsi sentire, per non turbarti, ma tu alla fine carpivi le parole e alcune erano terribili, piene di odio e di minacce. Loro invece volevano farti credere che rimanevano in silenzio per ore e ore, a fissarsi per farsi venire il sonno e per andare a letto.
“Tanto io vi sento lo stesso”, dicesti un giorno, sbucando all’improvviso alle loro spalle. “Tu vuoi uccidere mamma e lei vuole seppellire vivo te”. E quelli cercarono di giustificarsi, di farti passare per una che immaginava troppo; ti diedero anche dei soldi per andare a comprare un gelato, ma tu rifiutasti le monete. Da allora hai coltivato un terrore tutto tuo, personale e impenetrabile, della tranquillità e della serenità; del silenzio, per l’appunto. Immaginavi sempre che un giorno ti saresti ritirata a casa e avresti trovato entrambi morti.
Anche adesso, a distanza di trent’anni da quell’episodio, nonostante tua madre e tuo padre fossero ormai due anziani che si sopportavano con saggezza, tu non avevi messo da parte la tua paura. Eri terrorizzata dalla serenità, perché qualcosa di violento era lì in agguato, pronto a manifestarsi. Solo l’estate ti strappava via l’angoscia.
Attendevi l’estate per innamorarti, perché l’amore è cattivo e crudele, anche quando è dolce. Piace prevaricare in medicamentose attenzioni, in asfissianti premure, in manie di possesso. E così erano stati anche i tuoi genitori, che volevano nasconderti l’odio che provavano l’uno per l’altro, pensando di proteggerti. L’estate infatti ti innamoravi, facevi innamorare e poi abbandonavi; ognuno tornava a casa propria, a chilometri di distanza. Poi, per gli altri mesi, ti chiudevi nella tua solitudine e condannavi alla clausura la libido. Sfiorivi, ti infrigidivi.
D’estate i tuoi occhi avevano bisogno di rinnovare le proprie promesse di contemplazione al sole, all’uomo che avevi scelto di amare, all’ira, alla paura della serenità. Nessuno ti ha fatto innamorare per sempre, nessuno ti ha mai odiato per le tue scomparse improvvise.
D’estate attendi che tu viva, che tu non abbia paura, che tu sia amica del silenzio.
Poi, semplicemente sei le tue paure.