Una giornata di Ivan Denissovic. L’orrore che raccontò Aleksandr Solženicyn

Una giornata di Ivan Denissovic. L’orrore che raccontò Aleksandr Solženicyn

Recensione di Marco Ponzi 

Ho avuto il mio primo incontro con Aleksandr Isaevič Solženicyn. Chi è stato Solženicyn?

Qualche decennio fa è stato un testimone vivente della brutalità del regime sovietico e io, da bambino, ricordo bene di averlo visto intervistato in televisione con quel suo barbone folto e la sua pelata tipica di chi tralascia l’estetica per donarsi all’intelletto.

Solženicyn è stato uno scrittore russo, un dissidente con una vita piuttosto travagliata, divenuto celebre per i suoi libri sui campi di lavoro nella Russia sovietica e il suo testo più famoso è “Arcipelago Gulag”. L’esperienza che Solženicyn racconta è tradotta sotto forma di romanzo ma, in realtà, è la stessa esperienza che lui stesso – e non solo – ha vissuto durante i suoi anni ai lavori forzati.

Questo romanzo è stato il primo a causargli dei problemi con la madre Russia e, solo dopo anni, è stato ritradotto nella versione pura, quella che è uscita dalla mente dell’autore; sappiamo infatti che questi testi, benché scritti anche lontano dal pericolo della carcerazione e in esilio, furono un po’ censurati perché ovviamente non facevano piacere al regime dato che ne rivelavano le pratiche persecutorie contro chi si opponeva a esso.

In “Una giornata di Ivan Denisovič”, di questo Ivan si sente parlare poco ma solo perché viene sempre chiamato con il nome di Sciuchov o con la matricola identificativa.

La vicenda è rinchiusa nei confini del Gulag dove le giornate vengono scandite dai ritmi di lavoro e di (poco) sonno. I prigionieri devono sopravvivere alla fatica, alle privazioni, alla fame e fanno di tutto perché il tempo della loro detenzione sia accettabile, se così ci si può azzardare a definirlo.

La loro attività primaria è quella del muratore: sono costretti a recarsi fuori dalle baracche per costruire muri, edifici, anche se la temperatura è sottozero. Le regole del campo stabiliscono che si possa lavorare anche a -27°. Se ci fossero -40°, i prigionieri sarebbero esentati dal lavoro e sarebbe un grande motivo per gioire. Troviamo quindi una situazione di estremo disagio e di costrizione in cui ogni piccola soluzione o stratagemma rappresenta una grossa conquista per alleviare la sofferenza: una crosta di pane in più, un pezzo di lardo rimediato, un pezzo di vetro che tornerà utile “chissà come chissà quando”, una cicca di sigaretta da aspirare.

I controlli dei sorveglianti erano rigidi e i prigionieri dovevano ingegnarsi anche per prevenire futuri problemi, ben sapendo quali erano le regole del campo. Fondamentale era la solidarietà tra i prigionieri, come anche quell’ultimo bagliore di umanità che rimaneva loro ricordando la vita fuori, aspettando dei pacchi alimentari, sognando qualcosa che non apparteneva più al loro presente, mandando a memoria passi del Vangelo.

In un certo senso, dovevano essere inflessibili gli uni con gli altri per evitare che qualcuno commettesse sciocchezze facendo andare di mezzo il resto del gruppo. La loro vita era un continuo presente – tanti presenti in attesa di un futuro lontano – e, come suggerisce il titolo, ogni giornata di vita in più, benché uguale a se stessa, era una giornata guadagnata e una in meno da scontare.

Correvano inoltre il rischio che la pena fosse prolungata di anni per un errore di qualsiasi natura.

Questo loro presente-passato, torna prepotentemente attuale oggi quando ci ritroviamo davanti dei campi di “detenzione”, non più solo per i dissidenti politici, quanto per i migranti, solo per fare un esempio, e con la complicità degli stati. Ancora, a un certo punto, mi sono ritrovato sotto gli occhi un’osservazione del personaggio che, di nuovo, schiaffeggia il lettore: l’allusione a un certo tipo di nazismo proprio dell’Ucraina e che, evidentemente, non è cosa nuova. Perché, si sa, la storia ritorna, si ripete, e spesso con gli stessi errori e con le stesse dinamiche messe in atto da uomini che perdono l’umanità.

Questo romanzo si potrebbe intitolare “Manuale di un adattamento” e l’uomo, in effetti, è un essere che si adatta, suo malgrado, e spesso anche a scapito dei suoi simili. Ci si adatta alle angherie e talvolta la loro violenza viene quasi perdonata perché, in fondo, si rimane vivi e non c’è cosa più importante quando l’unico orizzonte visibile è quello di un filo spinato o di un oceano da superare.

In “Una giornata di Ivan Denisovič”, alla fine, il protagonista si rallegra di essere rimasto vivo ma soprattutto gioisce di come si sia svolta quella giornata: mangiando un boccone di sbobba in più, guadagnando qualche rublo con lavoro extra, avendo patito meno il freddo e così via.

Nel campo di detenzione i prigionieri apprezzano la vita vera al punto che qualcuno desidera di non uscire mai, sentendosi più utile dentro che fuori, realizzando se stesso pur conseguendo obiettivi altrui. Dunque, per citare un pittore misconosciuto, ognuno di noi si sceglie la propria prigione determinando così il valore della propria libertà.

 

 

 

 

 

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