Un pomeriggio di luglio
Racconto di Rosanna Pontoriero. In copertina: “Autoritratto” di Antonio Donghi, 1924
Quell’attesa era liberatoria e soffocante, sembrava la fine della vita e allo stesso tempo il divenire di una nuova storia, proprio lì: nella grigia sala d’aspetto di un medico oculista, che affacciava su un viale trafficato, in un pomeriggio di calura. Un palazzone appena costruito, “nuovo di zecca” commentavano orgogliosamente i dipendenti della banca di fronte.
In realtà si trattava di uno stabile in serie, anonimo e scialbo. Giuliano ne aveva ribrezzo, perché in fondo e nonostante tutto, si considerava un artista. In sottofondo «Luglio col bene che ti voglio vedrai non finirà…», il parlottare snervante della gente: «Avevo appuntamento alle 16.00 e sono già le 16.50, ma dove ha la testa questa segretaria? Roba da matti! Nessuno ha più voglia di lavorare…».
Giuliano sbruffava e fremeva, fissando ora una pittura geometrica ovale, ora i titoli di un vecchio seminario sulla miopia; uno strano ronzio si infiltrava nei suoi pensieri: era un artista? O forse non lo era più?… Aveva smarrito il talento per sempre? Lo aveva perduto, ucciso, dimenticato? E se non fosse stato tutto perso? Era questione di aprire gli occhi…di ascoltarsi o tacere, decidere di morire.
D’altronde, ci sono infiniti modi per non esistere: uno è quello di diventare uno statale per comodità e lasciar perdere il canto, pensando sia roba per velleitari. È quello che aveva fatto Giuliano Belsito, trentadue anni compiuti, da giovanissimo un bravo tenore, ma divenuto prima realista, poi pigro, infine disilluso e rassegnato. Tutto per colpa dei discorsi in famiglia: «Giuliano vuole vivere di canto… vorrà dire che mangerà spartiti il ragazzo…», si sentiva umiliato, amareggiato ed estremamente sbagliato.
Era stanco di non essere come gli altri. Non possedeva per natura la grinta che serve alle persone per distinguersi, per mandare affanculo il mondo. Quella di Giuliano era un’arte fiacca, priva di slancio, si era arenata sotto i colpi letali della normalità. Una mattina di maggio aveva fatto domanda come dipendente delle Poste, tre mesi dopo lo avevano convocato, con grande gioia di mamma Gina e papà Alfio, all’ufficio di via Marconi. Si sarebbe occupato delle spedizioni e le sue giornate sarebbero passate tra pacchi e cartoline. Era stato un sollievo: finalmente una boccata di benemerita salubrità.
Settimane dopo aveva smesso di prendere lezioni e aveva annullato gli appuntamenti presi come tenore. Le giornate passavano con parsimonia e raziocinio: sveglia, lavoro e ritirata, adesso si che era un uomo apprezzabile. E con il trascorrere del tempo aveva smesso persino di pensare al canto, proprio lui che aveva vissuto di immaginazione, sognandosi in grandi teatri. La vita è amara come un limone verde per la gran parte degli uomini.
In quella stanza estranea, dove in genere le persone passano tempi morti, Giuliano era in preda ad una rivoluzione personale: non sarebbe uscito con la ricetta di un collirio, bensì con una nuova coscienza e una rinnovata identità. Era l’alba di una nuova vita e chi lo avrebbe mai detto. I pensieri varcavano la sua mente con una velocità impressionante: «Sono o non sono un tenore? Ma perché non canto più? Il canto era la mia vita… – si ripeteva a bassa voce, sicché urlò forte – il canto era la mia vita!».
Si voltarono tutti e poi seguì il silenzio, a quel punto uscì la segretaria: «Belsito prego, si accomodi…», ma lui non c’era. Uscito come un razzo in strada, correva forte tra la gente, sotto i caci del viale, aveva deciso: si sarebbe licenziato dalle Poste per riprendere il canto, lo doveva a se stesso, era il richiamo della vita, al quale rispondeva finalmente, mandando il mondo gioiosamente affanculo.