Dahmer. Vita e oscenità di un serial killer

Articolo di Letizia Falzone. In copertina la locandina di “Dahmer”
È la serie più discussa del momento. Uscita lo scorso 21 settembre su Netflix, la serie ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan, ha immediatamente raggiunto i primi posti nella classifica delle serie più viste in Italia, e non solo.
Narra la storia di uno dei più famosi e controversi serial killer della storia americana. Jeffrey Dahmer si è reso responsabile di diciassette omicidi effettuati a cadenza quasi regolare tra gli anni 1978 e 1991, dimostrando già in queste cifre la disumanità che ha caratterizzato la sua storia, ma è diventato tristemente famoso per i cruenti metodi con cui infieriva sui cadaveri delle sue vittime: dal cannibalismo alla necrofilia, passando per alcuni tragici tentativi di lobotomia alla ricerca di una seconda vita per gli uccisi. Il Mostro di Milwaukee è stato per un decennio un vero e proprio incubo vivente, lasciato in libertà nonostante i sospetti dei suoi vicini perché sceglieva accuratamente i suoi obiettivi tra gli omosessuali di colore ed asiatici all’interno di un quartiere controllato poco e male dalla polizia del luogo.
“Please dont’go” (Per favore, non andare) è la frase che riesce a racchiudere le infinite sfaccettature del dramma psicologico che Jeffrey Dahmer vive durante la sua tormentata esistenza, ma non solo. La stessa frase è anche il titolo della canzone del 1979 del gruppo americano KC and The Sunshine Band, brano dai toni romantici tipico dei balli di fine anno delle high school d’oltreoceano, il quale risuona spesso durante questi 10 episodi, soprattutto in momenti drammatici che segnano la psiche del protagonista.
A Dahmer non interessava l’omicidio in sé, quanto tutto ciò che ne conseguiva. Un modus operandi metodico e analitico, con cui procedeva nel mettere in atto la propria perversione. Una perversione che Murphy fa propria, in una messinscena altrettanto maniacale e dettagliata. Cominciando dalla ricostruzione in scala 1:1 dell’appartamento 213 degli Oxford Apartaments, dove l’assassino viveva e dove si è consumata la maggior parte degli omicidi. Murphy sviscera eventi e psicologie complesse in un eterno, terribile, presente, quello degli omicidi, che non sembra seguire alcun arco narrativo canonico. La serie procede per flashback, a partire dal momento dell’arresto, per poi muoversi a ritroso nel racconto. Ma ripropone istanti, scene, dettagli già mostrati in precedenza. Talvolta aggiunge pezzi di storia, altre volte li recide, ne perfora la superficie (quella della cronaca, raccontata dai mass media, e l’immaginario impostosi nella cultura di massa) per andare sempre più a fondo nella mente del mostro.
Sono caratterizzanti i numerosi primi piani lunghi, lenti, magistralmente costruiti per farci sentire intrappolati, insieme a lui e alle sue vittime, nelle diverse stanze dell’orrore. Con pochi e brevi dialoghi, percepiamo la solitudine e l’abbandono che segnano per sempre la personalità del protagonista. Esplora non solo gli efferati omicidi e il disgustoso modus operandi di un terribile serial killer, ma anche la sua psiche frammentata e dolorosa, senza cercare di giustificarlo in alcun modo eppure facendo luce sulle numerose problematiche di una società ottusa e anaffettiva come quella americana degli anni Settanta ed Ottanta.
Ogni polemica sulla presunta oscenità di questa serie è inaccettabile. Dahmer non rende il protagonista un eroe; adotta spesso e volentieri il punto di vista delle vittime e tiene in grandissima e delicata considerazione i sentimenti dei familiari. E proprio per l’attenzione dedicata alle vittime e alle loro famiglie, potrebbe essere considerata come un memoriale dedicato alle persone uccise. Perché Dahmer non si limita a raccontare la storia di un efferato criminale, ma si allarga a macchia d’olio, lentamente, inesorabilmente, narrando con grande perizia una miriade di aspetti, temi e dettagli, che solitamente vengono messi da parte. La storia viene narrata assumendo mille diversi punti di vista, offrendo grande rilievo all’ambiente umano nel quale Jeffry Dahmer è cresciuto e nel quale ha successivamente realizzato il suo delirio di sesso e cannibalismo.
Guardate Dahmer se avete lo stomaco forte, con la consapevolezza che alcune scene vi disturberanno, fatelo perché racconta una storia vera in maniera parecchio originale, costringendo lo spettatore a riflettere su temi come l’emarginazione sociale, la cattiveria, la sofferenza e la giustizia (divina e degli uomini). E nonostante la difficoltà di riuscire ad entrare in empatia con il personaggio, ci ritroviamo inconsciamente a sperare in un suo cambiamento, in una redenzione o, per lo meno, in una presa di coscienza. Ci scopriamo a “tifare” per un suo cambio di rotta, a sperare che prenda le decisioni giuste e che torni sulla retta via perché anche lui, in fondo, è un essere umano i cui demoni hanno preso il sopravvento, intrappolandolo in un vortice in cui sparisce la persona e rimane solo il mostro.