Cumpariello d’amore

Racconto e foto di Adalgisa Giannella
Respirava l’aria delle persiane.
Un’aria statale sporca di camion, furgoni, chiasso, fetenzia.
Rocco la trovava più viva di quella che incupiva le stanze dell’appartamento dove abitava da quarant’anni.
Polverose, silenziose, dolorose di pensieri ammassati tra vecchie foto e mobili scoloriti.
Settant’anni e sentirli nelle costole doloranti, negli occhi annebbiati, nelle gambe morte.
Peccato per quella lucidità severa del cervello che lo preparava alla fine con strategica consapevolezza.
Peccato dipendere da una pila di medicinali che non lo avrebbero guarito, ma avrebbero reso più lunga la vita di merda.
Peccato avere Ugo, il filippino che per pochi soldi lo teneva in vita, che non lo ascoltava quando a mani giunte lo pregava di lasciarlo morire, non cucinando, lasciandogli addosso il pigiama, senza prepararlo ogni volta a visite mai ricevute.
Ma Ugo sorrideva e lo smorfiava come fanno gli orientali, saltellando con addosso una felicità che sembrava quella dei suoi undici anni, prima di diventare orfano di entrambi i genitori.
Zia Concetta, la sorella del padre, era venuta da Caserta per guardarlo e fare le veci dei genitori.
“Ce penz io a te, povera creatura sfurtunata! Tant a me nun me vole nisciuni, che stong intu bar come fossi nu masculo.”
Inta chies Concetta non sapeva fare neanche il segno della croce, ma dopo la funzione se lo portò al caffè Teresella e ci diede un bicchierino di anice.
Rocco si fece la prima sbronza a undici anni e fu battezzato Rocchetto arruzzuto, perché c’aveva come madre adottiva Concetta la sfruculiatrice quella che per un bicchiere di vino, avvellutava pure avvocati e scopini.
Ci fece vent’anni con zia Concetta tra un marciapiede e una stazione di polizia. Eppure ci voleva bene tanto assaje a Concetta, perché se lo teneva come un cumpariello d’ammore e guai a chi lo toccava Rocchetto.
Fu mamma sua seconda, Concetta la spassusa e mpastucchiata, che a Natale ci regalò l’appartamento in via degli Stravolti numero 5 per morirsene di cirrosi epatica quando Rocco si fidanzò.
N’ato dolore malgrado Valentina e gli occhi incantati, la panzella piena di una criatura che sull’ecografia pareva uno schioppo di palomma.
L’amò assai Valentina finché non se ne andò con uno strillo assieme alla palomma che di volare non ne voleva sapere.
Qualcuno lo conosce l’amore quando della vita tua se ne fotte e fa nido da altre parti, malgrado tu sia diventato milorde con soldi e casa, stima di compari e segnalato per onorabilità?
Non lo potete conoscere se ogni giorno non vi recate al cimitero degli Angeli e ve li piangete gli angeli dopo aver lasciato u core tra garofani bianchi e margherite ammusciate.
Non lo sapete l’amore vero che fa sbattere chillo core, pure se nun ce la fa a scutulià per il dolore e i trapazzi.
L’amore nun è dolcezza né tradimento, nun è nu campusanto scardato, l’amore è na malattia che arriva come na stella n’cielo, e poi nun ce fa niente nisciuno se smette e brillà.
Neanche Ugo ce l’ha fatta, che ride, ride e s’inchina a terra fino a che trova Rocco che pare assunnato e invece se n’è gghiuto luntan grazie a na bottiglia e vodka e a due scatule e barbiturici.
Ugo non le capisce le lacrime che ci scendono.
Se le raccoglie con gli indici e ce le mette sul cuscino di Rocco, che tiene il viso d’un santo come nu figlio incapace di continuarla la vita senza ragione.
Rocco afflitto ma anticamente fortunato e mò fortunato ancora, int a nu Paravis che vere tutta a famiglia accurdata con amore.
Chest succere dopo na morte.
Niciuno o sape, sembra un incidente, ma la vita si guadagna tutta in una morte, perché si torna tutti cumme ci ha fatti Dio.