La gratitudine in una “cucchiara di legno”
Articolo e foto di Silvia Palombi
Siamo ipoudenti, ipovedenti, non ci accorgiamo – ma faremmo bene a farci caso – che la vita ci ripaga di tutto quello che con le nostre azioni passate ci siamo andati procurando passo dopo passo. Lo fa nel bene e nel male, immancabilmente.
Ma partiamo dal principio, dalla salsa di pomodoro che ho fatto oggi coi pomodorini arancioni e quattro, solo quattro, pomodori rossi tondi sodi, maturi. La fagottata di pomodori misti mi è stata venduta per un euro dalla donna che ogni settimana allestisce un banchetto della produzione della cooperativa slovena della quale fa parte (vivo a Trieste, da lei faccio regolarmente la spesa) perché mezzi tocchi, cioè con macchie nere. Una volta a casa, dopo averli lavati, mi sono messa di santa pazienza a pulirli e a tagliarli, poi li ho messi sul fuoco, girando il tutto ogni tanto con una delle tante cucchiare di legno che ho.
È necessaria una premessa per tutto quel che leggerete da qui in poi: mia madre, nata a San Felice Circeo il 21 aprile del 1920, ha cambiato pianeta a metà settembre del 1992, con uno strazio tagliente e inenarrabile; gran parte di quel che è stato trattenuto dal setaccio del dolore, di una quantità incalcolabile di cose, ossia oggetti, stoffe, tovaglie e tovaglioli (sufficienti per farci più copriletto per un orfanotrofio) lo uso quotidianamente, e non c’è volta, non una singola volta che non pensi a mamma e alla famigliona che avevamo dietro, davanti, sotto e sopra, intorno insomma, a protezione e insegnamento di quanto conta e serve, al di là e al di sopra delle divergenze, delle acrimonie, delle rivalità e incomprensioni.
Ma non è un ricordo ossessionante né una zavorra, è una cosa lieve che mi fa compagnia, quasi a dirmi, nella resistenza delle cucchiare che dopo anni di sughi, salmì, stufati e quant’altro, ancora assolvono al compito per il quale sono state tirate fuori da un ramo… siamo con te, stai tranquilla. E quando ci penso, se ci penso come si deve, mi sale la gratitudine.
Per fare una cucchiara di legno ci vuole almeno un ramo, che deve aver fatto parte di un albero; l’albero per nascere e crescere ha avuto bisogno di qualcuno che lo ha seminato, fiducioso che germogliasse, annaffiato quando aveva le prime due foglioline (figlioline si potrebbe dire) e accudito fino a quando il germoglio è diventato un ramoscello e le foglioline si sono replicate due a due. Poi c’è stato bisogno di qualcuno che cercasse e trovasse il posto giusto dove mettere a dimora il giovane virgulto e lo seguisse nell’infanzia e nell’adolescenza difendendolo da attacchi di parassiti, muffe e quant’altro; successivamente qualcuno se ne è dovuto prendere cura fino alla fioritura e poi alla trasformazione dei fiori in frutti.
Per tornare al sugo, quindi ai pomodori, pensiamo con gratitudine a chi i pomodori ha seminato, e per seminare ha prima dissodato, vangato, fatto i solchi, annaffiato il giusto, né troppo né poco, li ha curati, legando i rami fioriti ai sostegni, ha cimato i fiori di troppo, chi li ha raccolti e messi in cassette che ha impilato e caricato su un camion che li ha trasportati fino al punto in cui, grazie a qualcuno che ha montato il bancone, il telo protettivo e lì sotto ha sistemato il tutto, abbiamo potuto scegliere i pomodori da portarci a casa.
Per tornare alle cucchiare di legno di quand’ero piccola, che continuo a usare con amore e riconoscenza, oggi girando il sugo rosso chiaro ho sentito come un’ondata di gratitudine, per mamma che non rovinava le cose che usava, insegnandomi a dare il giro a scarpe, mutande, magliette e qualsiasi capo di abbigliamento così da mantenerlo in buona salute il più a lungo possibile, e al suo gusto innato che mi tiene al riparo da errori marchiani.
La gratitudine, quando è così lontana dal generatore e destinatario della medesima, si trasforma, obtorto collo e con malinconia, in gioia. Dunque ecco che oggi, ma non solo oggi, per me fare la passata di pomodoro ha comportato gioia, una gioia impossibile da ricondurre a una forma, imbrigliare in una formula, una gioia soffusa, lieve e ben distribuita, che mi sta facendo sorridere anche adesso che cerco le parole per portarla fuori da me, renderla decifrabile e condividerla; una gioia allo stato nascente non ancora definita, che preannuncia il roseo dell’aurora.
Una gioia che sta tra la notte e il giorno pieno come l’alba.