Carmel. Il romanzo di Gwendoline Riley secondo Rino Garro

Carmel. Il romanzo di Gwendoline Riley secondo Rino Garro

Racconto-recensione al libro “Carmel” di Gwendoline Riley. Lo scrittore calabrese Rino Garro trae ispirazione dal romanzo per immortalare un momento. In forma ridotta l’articolo è già stato pubblicato per Flaneri

C’è un tempo, nelle vite di ciascuno, in cui ombre dal passato danzano davanti agli occhi chiusi come sirene o fantasmi. Hanno forme mutevoli, della stessa sostanza dei sogni appena svaniti. Sanno di gioventù, di un’energia infelice o forse visionaria; di futuri da immaginare e costruire, da provare a raggiungere col fiato corto. Lasciano, queste immagini sfocate, un languore non si sa se dolce o amaro.
Sull’autobus verso Manchester, dove ritornavo dopo diversi anni, ero – nel sonno a occhi aperti – preda di questi sentimenti. Pezzi confusi di estati trascorse al freddo fradicio del Lancashire e del Cheshire andavano e venivano senza alcun ordine logico e temporale, confondendosi. Chi ero, in quei miei primi giorni in terra d’Albione? Cosa volevo? A quel tempo non me lo chiedevo neppure, vivevo come su un’onda; annaspavo di febbricitante inconsapevolezza, di magrezza malata. Appena l’autobus fece ingresso nel terminal di Chorlton street – un edificio dalle grandi vetrate, non bello ma da poco rinnovato – mi venne invece incontro la vecchia autostazione, sporca e opprimente, con tutta la sua forza evocativa.
Ed è in quella precedente coach station, non in quella nella quale mi trovavo al momento con le valigie ai piedi scaricate dal ventre dell’autobus, che emerse dal buio una figura filiforme. Era addossata a un pilastro oleoso, il capo appena inclinato e i capelli raccolti, mentre una mano sorreggeva il gomito dell’altro braccio come se questo non avesse forza sufficiente a farlo. Avanzò lentamente nella mia direzione, ondeggiante. Prima di vederla scomparire nell’oscurità, in un lampo, feci appena in tempo a scorgere le Mary Jane bucate e zuppe che le spuntavano da una lunga gonna colorata. Istintivamente cominciai a chiamare il suo nome, cercando intorno tra le colonne e le tetre sagome dei pullman. Carmel… Carmel… Mandy, Carmel… Julie, Carmel…
Ero così esausto del viaggio infinito (da Firenze a Manchester in groppa a sedili di vera vinilpelle per un totale di 36 ore) che il fantasma di me si era appiccicato a quello dell’esserino filiforme, e non sapevo più se la ragazza che mi era passata accanto fosse reale o frutto di un mio sommerso desiderio di aggrapparmi a quegli anni, a quegli slanci, quando di tipi come Carmel ne avevo conosciuti a sufficienza. Che poi Carmel, certamente, era la proiezione di Mandy o Julie, oppure di Karen o anche di Jemma o di chissà quante altre; e io stesso in fondo, seppure in versione maschile, sarei potuto essere lei, Carmel, in bilico sul filo delle scelte nella Manchester notturna di fine anni 80. Così il giorno dopo l’apparizione non potei fare a meno di ricomprare da Waterstones Cold water di Gwendoline Riley, in inglese; e non appena di rientro in Italia ritrovai tra gli scaffali della libreria Carmel, il titolo scelto da Fazi, nella bella traduzione di Federica Bigotti. Volevo rivivere quel tempo, mi era di colpo sgorgata un’autentica nostalgia, e la forza icastica di quello smilzo romanzo me lo restituiva appieno.
La storia è semplice, esile al punto da diventarne il valore aggiunto. Carmel Mckisco lavora di notte in un dive bar di Manchester, un posto disadorno, con tavoli e sgabelli scheggiati in procinto di cedere. Poco più che ventenne, affranta da vicende famigliari da cui è fuggita, deve ora superare il dolore per la rottura della relazione con Tony, uno dei tanti clienti del locale. È stata Margi, stessa età di Carmel, a convincerla a lavorare, insieme, al dive bar, poco da fare e lungo tempo per chiacchierare e leggere e ascoltare musica. Carmel e Margi condividono non solo gli spogli appartamenti in periferia ma soprattutto gli stati di umore regolarmente alterati dall’alcol e gli splendori e le miserie d’animo comuni ai giovani nel loro farsi adulti. Le due amiche condividono anche il desiderio di fuggire dalla tristezza che le avvinghia e dallo squallido e opprimente panorama urbano che le circonda. Ma è proprio il fascino decadente e nichilista della Manchester notturna, dei suoi tanti personaggi svalvolati e evanescenti in cerca di illusori successi in ambito musicale, che le costringe in qualche modo a non andare, a non trasferirsi nell’agognata Cornovaglia.
Carmel, così come Margi, è molto più adulta della sua età, sebbene possa apparire gracile e già incamminata sulla strada della perdizione fisica e psichica; se così non fosse, del resto, le vicende trascorse avrebbero potuto inesorabilmente travolgerla. Agghiaccianti nella loro crudezza i primi paragrafi del secondo capitolo, da cui emerge lo stato di terribile solitudine che opprime ciascun componente della famiglia.
“Mio padre è morto quando io avevo quattordici anni. L’ho trovato seduto rigido sul divano una sera che sono rientrata tardi, gli occhi aperti dietro gli occhiali e un posacenere in bilico sul bracciolo della poltrona. Ho spento il sibilo della TV e mi sono seduta vicino a lui. Non ero arrabbiata. Mi sentivo sollevata. Per noi e per lui.
Mio fratello Frank, mia mamma e io ci siamo trasferiti subito dopo, dalla nostra casetta a Prestwich a una casetta a Whitefield. Era un posto deprimente, sempre in disordine. C’erano giornali e vestiti sparsi per il pavimento del soggiorno, penne biro che si frantumavano sotto i piedi se tentavi di crearti un varco per raggiungere il divano. Tazze macchiate di tè e piatti sporchi ammassati sul tavolo e sul davanzale. Mia madre spostava i mobili in continuazione per coprire un tappeto sudicio di drink versati e cibo gettato. Diceva sempre che non avrebbe mai potuto far venire gente per lo stato in cui era la casa.
‘Chi, per esempio?’ chiedevo.
‘Amici.’
‘Quali amici?’
E allora c’erano lacrime, anzi, più precisamente, singhiozzi. Non lo sopportavo. Tutto quel suo piangere mi suonava come una cantilena. Avevo dei pensieri crudeli, del tipo che papà forse l’aveva colpita in testa una volta di troppo. Era come terrorizzata. E c’era anche una certa petulanza nel suo atteggiamento, un atteggiamento da martire che non riuscivo proprio a reggere.”
Sono pagine di profondo malessere, che danno il senso e la misura del vuoto contro cui Carmel deve quotidianamente lottare: paure e mostri invisibili sorvolano, abitano e ghermiscono la sua giovane mente. Quando poi arriva l’amore, Tony sembra riuscire a condurla –  per voli e istanti di possibile serenità – in altri mondi, in paesi lontani, esotici. Ma dopo qualche tempo, e nessun preavviso, con poche parole Tony le dichiara il suo disinteresse per la loro relazione; cosicché Carmel si ritrova di colpo nella cupa, piovosa, dolorosa Manchester. Il tutto avviene senza che Carmel provi a chiederne il motivo o obiettare qualcosa, azzardare magari il finto, estremo tentativo dell’innamorato affranto. Niente. Bocca cucita, o quasi.
“Tra le altre cose ha detto: ‘Non sembri proprio la persona più felice del mondo… comincio a trovarlo piuttosto avvilente, ad esser sincero.’
Io non sapevo cosa rispondere. Ho solo detto: ‘Ah, va bene.’ Non ho chiesto nient’altro, né ho pianto o iniziato a litigare. Questa è la regola numero uno. Sono tornata al mio appartamento, mi sono ubriacata e poi sono andata al lavoro.”
Nello stile di vita di Carmel, nella sua apparente supina accettazione del destino e dei giorni tutti uguali, sembrano quasi congiungersi in un abbraccio consolatorio un’estetica e un’epica della desolazione. Come quando, dopo le sbronze postseparazione, Carmel accetta di consolarsi con Kevin, un altro cliente suo ammiratore, ma giusto perché lui si trova sempre lì, nel dive bar, è divenuto ormai una solida parte di esso, squallido quanto il locale. Così i due combinano di vedersi nella serata libera di Carmel, e tanto per cambiare se ne vanno a bere al Dȏme bar, sebbene questo abbia caratteristiche un po’ diverse da quall’altro: “un posto pulito, ben illuminato, e con un pavimento di legno scuro.” La conversazione è lenta, strappata alle labbra dell’uno dai silenzi dell’altra e appare così assurda da scivolare in rivoli di involontaria comicità, o di squallore, come deve ammettere la stessa Carmel.
“Io ho ordinato un Campari orange, e Kevin ha preso un whisky. Ci siamo seduti sugli sgabelli al bancone.
‘Ancora non ho trovato il mio drink’, ho detto.
‘Be’, il whisky ha ucciso mia madre quindi ha un valore quasi romantico per me’, ha risposto sollevando il bicchiere. Che squallore.”
Molti dei personaggi che (non) agiscono nel romanzo sono giovani e giovanissimi. All’apparenza, essi hanno già dichiarato la propria resa incondizionata; si vedono vivere, inermi, senza alcuna prospettiva se non per il presente immediato, fatto di alcol droga e rock’n’roll. Come, ad esempio, accade a Gene O’Brien, un cantante innamorato degli alieni che rimedia con Margi il suo incontro ravvicinato e finisce per trasferirsi in casa di lei, a Longsight. Margi rivela che Gene vive in un’altra dimensione, in attesa del suo momento, dimensione che lei però sembra non disprezzare.
“Una compagnia discografica stava per scritturarlo, ma quando la telefonata cruciale è arrivata, così ha raccontato Margi, lui ha solo detto:  ‘I miei fagioli stanno bruciando’, e ha attaccato il telefono. Non si è mosso dal divano per giorni, perso in infiniti e inesauribili sogni ad occhi aperti, guardando le immagini degli sbarchi sulla luna. A Margi non importava.”
Non molto diversa è la condizione di Katja, una ragazza arrivata da Praga per imparare l’inglese. Carmel e Katja stringono una forte amicizia, si incontrano spesso alla Central Library a leggere e a parlare di letteratura, e trascorrono insieme così tanto tempo che la gente crede che abbiano una relazione. Katja ha un carattere inquieto, cambia spesso lavoro (in genere ogni sei settimane), e infine preferisce licenziarsi da tutto e vivere del povero sussidio di disoccupazione. Quando lo spazio di completa libertà si esaurisce in prospettive sempre più asfittiche, Katja si adagia a stati di estatica riflessione, al punto da starsene rintanata tutto il giorno nel suo minuscolo e spoglio flat di Hulme. Di tanto in tanto Carmel va a farle compagnia, ma la situazione peggiora. Katja appare incapace di reagire, di liberarsi da quella cappa di triste, disperata attesa. Piange, racconta delle telefonate dei famigliari che le chiedono insistententemente cosa stia facendo lontana da casa e quali siano gli sviluppi della sua vita inglese.
“Ho finito le energie. Ogni giorno quando scendo per ritirare la mia posta dico dentro di me, ti prego, ti prego, fa’ che oggi nella mia posta ci sia qualcosa che mi cambi la vita. A ogni scalino, ti prego ti prego ti prego… “
Questo confessa, tra le lacrime, Katja a Carmel. Poi, concludendo, come per trovare sollievo alle sue pene, le dice: “Tu mi capisci, tu sei come me.”
In fondo è quasi vero. Anche Carmel è in attesa che qualcosa o qualcuno le cambi la vita, e vuole sentirselo dire senza pietismi in modo da bruciare nel fuoco di quella verità, ma al contrario di Katja ha la segreta speranza che ciò possa realmente accadere e, almeno, prova a scovare in qualche minuscola parte di sé la forza di sottrarsi alle terribili catene di una reclusione involontaria. Carmel comprende alla perfezione le parole di Katja, ne ha piena coscienza e paura, ed è per questa ragione che Katja un po’ alla volta verrà dimenticata.
Una delle speranze segrete di Carmel è – ovvio – incontrare l’uomo che possa scacciarle il ricordo di Tony, di cui è ancora profondamente innamorata. Il caso la porta a incrociare Lucas, un ragazzo americano con la camminata da cowboy di rientro a Austin il giorno successivo. I due trascorrono la giornata a bere in diversi pub del centro, e alla sera Lucas l’invita nella sua camera d’albergo, al lussuoso Midlands, da dove si può scoprire un altro skyline della città, con la Central Library e i Piccadilly Gardens che assumono fisicità impreviste. Sebbene Lucas le confessi di essere impacciato con le ragazze, è inevitabile che l’incontro si concluda con una notte, più che di sesso, d’amore. Poiché, al mattino, Lucas mostra una sincera emozione, dichiara i suoi sentimenti e vorrebbe potervi dare seria conseguenza, prima di partire. Anche Carmel sente l’importanza della circostanza, e come le capita nei momenti di fragilità, si abbraccia le ginocchia e comincia a tremare. Sarà il caso a determinare la sua scelta, pur ampiamente non calcolata.
“Ho dato un colpetto sulle mie ginocchia e ho preso fiato e ho detto: ‘OK. Ti dico una cosa. Se ho una penna nella mia borsa, ti scrivo il mo numero, ma se non c’è, niente.’
Ho messo la borsa sulle ginocchia e l’ho aperta. Lui si è poggiato sulla mia spalla mentre cercavo. Ho sempre tre o quattro penne nella borsa, quindi il mio non è stato il gesto grandioso che poteva sembrare. Eppure, per una volta, per la prima volta, ho frugato, lentamente, tra i libri e i trucchi e le confezioni di pillole e i tamponi, e non ho trovato penne. Non c’era nessuna penna. Mi sono rimessa la borsa sulla spalla. Non potevo controbattere. Mi ero messa in trappola da sola. Ho guardato Lucas e ho scrollato le spalle e lui mi ha guardato nello stesso modo in cui lo stavo guardando io.”
Se qui è il fato ad agire con inattese conseguenze – fato che in seguito, beffardamente, lascerà il suo sigillo a memoria sui denti e le labbra di Carmel (l’inchiostro blu di una biro masticata con cui prova a risolvere parole crociate) – nel romanzo tutti i personaggi, pur con sembianze di spettatori inermi, sono in realtà artefici del proprio destino; incatenati dalle inettitudini, dalle debolezze e dalle illusioni che parrebbero isolarli per sempre da sé stessi, oltre che dagli altri. A sottrarre, probabilmente, Carmel da un finale così nefasto, quando non in preda a depressioni e hangover distruttivi, è il materializzarsi con icastica plasticità del terrore di vedersi diventare come qualcuno dei clienti del dive bar, vecchie spugne derise e consapevoli, o come Steven Unsworth, uno dei molti musicisti bruciati dalla droga a cui aveva legato il suo amore di ragazzina.
Quando, dopo aver visto uno dei suoi concerti, Carmel era ritornata a casa, nella sua stanza, a notte fonda e aveva ascoltato ancora una volta le canzoni di Steven, a basso volume per non svegliare i genitori, d’improvviso tutto le era sembrato pieno di vita, carico di una forza che non credeva di avere, e di colpo anche quella famiglia, quella casa divenivano per qualche momento almeno sopportabili. Per tutte le volte che metteva quel disco sul piatto. Così, ora, nel tentativo di recuperare gli intermezzi di serenità perduta, Carmel si costringe alla ricerca dello squat dove vive Steven, a Macclesfield, e con qualche sotterfugio riesce infine a individuarlo. Quella che appare agli occhi di Carmel è una scena terribile, tenera e drammatica allo stesso tempo, che può considerarsi emblematicamente conclusiva.
“Steven dormiva rannicchiato su un letto da campeggio, completamente vestito. Non c’erano mobili eccetto il letto, anche se c’erano alcune candele, un registratore e una scatola di cartone piena di cassette. Mi sono avvicinata un po’ e guardandolo ho sentito qualcosa scorrere dentro di me […].
Ho poggiato la mia borsa per terra e mi sono inginocchiata vicino al letto. Ho notato che aveva dei cerchi scuri e lividi sotto gli occhi, e che le sue labbra erano pallide e piene di croste; respirava, a scatti, dalla bocca socchiusa.
‘Gesù, cosa hai fatto?’, ho sussurrato. ‘Guarda che cosa hai fatto!’
Mi sono seduta sul bordo del letto e mi sono sfilata le scarpe. Poi, con cautela, mi sono stesa accanto a lui e ho messo il suo braccio esile attorno a me, tenendo la sua mano fredda e delicata, e chiudendo gli occhi, nella sua stanzetta, illuminata soltanto dalle fiamme danzanti e morenti  di due candele da chiesa che stavano per terra accanto al letto insieme a un posacenere, e a un block-notes.”
Ciò che non fa sprofondare Carmel nel più cupo disfacimento è dunque la fiammella sempre accesa dell’amore, da dare e ricevere, e quella dell’aspirazione fintamente nascosta per una carriera da scrittrice; ma è anche la scoperta di una imprevista spiritualità avvenuta tramite il libro di preghiere regalatole da uno dei suoi stravaganti amici. Così, nella sua fragilità, nel suo morire e risorgere, Carmel riesce a riconsegnarsi a sé stessa, a scovare e tirare – sorprendentemente – i fili del proprio destino.
Il romanzo di Gwendoline Riley, attraverso un linguaggio scarno e poetico, restituisce con forza il palpito di ragazzi e ragazze in bilico sulle proprie vite, negli anni che vengono considerati i più belli soltanto quando li si guarda retrospettivamente. Mentre per alcuni, com’è noto, è proprio questo il tempo del fuoco e del dolore. La giusta scelta di una costruzione quasi diaristica sottrae il romanzesco al racconto, e non fa che esaltarne la profondità e la verosimiglianza. Al punto che ogni qual volta sono di ritorno a Manchester, in visita obbligata al Mario&Gianni’s Restaurant, mi sembra di rivedere me stesso in quel tempo, di scorgere il fisico minuto di Carmel aggirarsi con le sue Mary Jane bucate per i giardini perduti di Piccadilly, di vederla servire in un pub di Oldham Street, annoiata, una lager a qualche occhiuto cliente. O di sorprenderla a leggere, alla Central Library di St. Peter’s Square, proprio il libro che io desidererei chiedere in prestito. Magari il suo, per confrontarlo col mio.

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