L’amore oltre la morte. Storie da un borgo di Calabria

L’amore oltre la morte. Storie da un borgo di Calabria

Articolo di Gattonero

Era domenica, una fredda e bella giornata di febbraio, un pomeriggio di sole dopo una mattinata di piombo, e ci eravamo portati all’altare per dire un  che sarebbe durato… non ci importava quanto sarebbe durato: era un oggi importante, che speravamo sarebbe stato un oggi permanente.

Finché morte non vi separi“, aveva detto il prete, che di lei sapeva abbastanza per ritenere che non sarebbe stata la morte a separarci.  L’aveva a suo tempo battezzata, cresimata, aveva cercato di domare una ragazzina recalcitrante alla partecipazione alle funzioni, alle preghiere. e alle confessioni. Era stata la prima in assoluto a indossare i pantaloni in un paesino in cui le braghe erano esclusività maschile. Con il contorno ancestrale di un dominio maschile che tranciava ogni discussione, i suoi pantaloni erano apparsi come un gesto di ribellione a un patriarcato che imperava. E anche il prete se ne era stizzito, forse perché, all’epoca, lui ancora indossava la sottana.

L’amore che dona vita

Di me, il prete, sapeva nulla; nel silenzio della sua mente, forse, mi riteneva un povero tapino che non aveva idea di quello che, con quel sì, si andava a sobbarcare. Non poteva sapere che non avevo mai avuto una famiglia mia, non poteva sapere che ho la testa di un ciuco. Non poteva sapere quanta fame avessi di un calore umano, di una compagnia che non fosse di lavoro o di amicizie.
Lui, il prete, forse non aveva idea di quanto il mio corpo avesse bisogno di amore. O, forse, lo sapeva… almeno per le solite voci che circolano tra le beghine dei piccoli paesi, magari calunniose, magari veritiere. Ma se anche fosse stato, se per lui il sapore della carne era un cadere in tentazione e poi autoassolversi, il mio desiderio non era più tentazione temporanea ma impegno per la vita.  E per la morte, quando questa avesse bussato alla nostra porta.
Da quel sì sono passati cinquantadue anni; cinquantaquattro dal nostro primo incontro. Per due anni eravamo stati uniti, ci eravamo spiati a vicenda, alla ricerca di eventuali falle, di qualche eventuale vermetto potesse esserci in ciascuna delle due parti della mela che andavamo ad unire. Ne sono passati sette da quando ho perso il suo corpo, ne sono passati undici da quando avevo perso la sua mente. Nei primi cinque anni della sua assenza, che mi piace ancora pensare apparente, mi ero reso conto di amarla come, forse, mai l’avevo amata nei quarantadue precedenti.
Ancora oggi credo che in quelli di matrimonio (“in salute e in malattia”, aveva detto quel prete), fossi stato innamorato del suo corpo; in quelli della sua distrazione mentale, quando non poteva più darmi il suo corpo, mi aveva donato la sua essenza, il suo cuore. Non ho potuto vederla da morta, mi ero trovato inguaiato in un accidente che faceva pensare che l’avrei preceduta in quell’ignoto aldilà che ci si ostina a definire miglior vita. Non ho mai rimpianto quell’ultima mancata visita: sapevo di un corpo devastato dalla lenta agonia che era stata suo abito per tutto il periodo precedente la morte.
Meglio così: sovente la sogno, e me la ritrovo in ogni sogno, quando sorridente e quando corrucciata; avessi visto il suo corpo devastato, sicuramente nei sogni e nei ricordi quell’immagine avrebbe prevalso su tutti gli altri. In uno di quei sogni l’ho persino menata, e non con un fiore… sicuramente solo in sogno poteva provocarmi al punto di spingermi a farlo. In vita non mi ero permesso neanche un’amichevole pacca sul sedere.

L’amore che va oltre

Stamattina sono salito al cimitero, con un tempo che prometteva pioggia. Un vento freddo mi aveva tenuto compagnia, poi, nel corso della giornata il tempo si è schiarito e il pomeriggio è addirittura soleggiato. Avevo colto un fiore in giardino, ma solo per non presentarmi a mani vuote. Lei, che per una decina di anni era stata anche fioraia, sapeva benissimo dell’inutilità di queste offerte floreali. Ci siamo parlati… veramente io solo ho parlato, ma sono certo che lei mi ha sentito e ascoltato.
La sua immagine ha un sorriso canzonatorio, ogni volta che la vado a trovare mi sembra di sentirla:  “Guarda che ti sto aspettando, ricorda che hai già prenotato la cameretta sopra di me, fai in modo che il tempo della concessione non abbia a scadere. Ma se anche fosse, ti verrò a cercare dovunque tu vada a depositare le tue vecchie ossa. Il prete, buonanima pure lui, aveva limitato il periodo della nostra unione al ‘finché morte non vi separi’, ma non poteva sapere che noi siamo uniti per sempre. La morte non ci ha separati, ci tiene uniti, in stanze diverse ma nella stessa casa. Fai con comodo, io ti aspetto…”.

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