Adeu. Ignazio Caruso e la storia di un parricidio

Adeu. Ignazio Caruso e la storia di un parricidio

Recensione di Ginevra Amadio

La struttura di Adeu (Giulio Perrone Editore, 2022) somiglia quella di un ticchettio sommesso, un rumore sordo che cresce piano piano, dilatandosi lentamente, senza conflagrare. Ignazio Caruso sa che per raccontare il caos – pur confuso con il ritorno all’ordine – è necessario agire con metodo, preparare la devastazione attraverso pause e irresolutezza. Così il suo romanzo d’esordio, straordinario esempio di letteratura viva, in cui il governo della materia è in equilibrio col contenuto stesso, si presenta come una lunghissima, estenuante sequenza. Quasi trecento pagine per raccontare l’iniziazione di un figlio alla vita, il sentimento di perdita, di orfanità, la nostalgia di quel che è stato e che mai si ripeterà. Il tutto a partire da una lacerazione, la più impensabile e dolorosa che possa immaginarsi: uccidere il padre come dovere morale.

Partendo da un’antica leggenda della tradizione sarda, Caruso, nato a Catania e cresciuto ad Alghero, edifica una storia di vita e morte, la radiografia di un’anima inquieta che supera l’indolenza, che si trova quasi per caso – e per obbligo – a fare i conti con le proprie responsabilità, in un corpo a corpo con la vita denso di non detti, di ricordi che affiorano come un fiume carsico, mentre i sentimenti fanno a pugni con l’etica, con la legge cui si vorrebbe disobbedire. Nella República di Cadossene (uno dei nomi attribuiti alla Sardegna nel corso dei secoli), Eloi Barra deve uccidere il padre Nevio. Non è il primo né l’unico; prima di lui lo ha fatto l’amico Pau, lo farà la fidanzata Tea, lo stesso genitore anni addietro ha preso il randell per finire il nonno, quando era pieno di forze e l’altro arrancava, ormai inutile alla società. È questa la legge di Cadossene: fare spazio ai giovani, scomparire, nel momento in cui non si è più indispensabili al sistema.

Caruso lo mette nero su bianco con precisione chirurgica, agghiacciante: «Se a Cadossene tutto funzionava, se a Cadossene tutti avevano un lavoro, era anche per questo, perché chi doveva farsi da parte si metteva da parte (insomma, veniva messo da parte)». Non si immagini tuttavia un narrare asettico, giocato sulla distanza tra i sentimenti e le cose; ogni passo, ogni esitazione di Eloi è studiata al millimetro, sezionata, e in questo scandaglio risiede la forza del libro, il pregio di saper rendere le titubanze, i dubbi, il coraggio di mostrarsi fragili.

Eloi ha un carattere mite, è un ragazzo cresciuto per inerzia, “riposante” perché composto – e fuori posto – in ogni dove, senza fare rumore né farsi troppe domande. Il compito che lo attende è la prima, reale prova della sua vita, un ciclone silenzioso e logorante che di riflesso mette in discussione tutto: l’amore per Tea, tanto bella quanto cinica, la voglia di indipendenza, la certezza di essere pronti a fare a meno del genitore. Nevio, del resto, è impossibile da odiare. Silenzioso e spiccio, a tratti anaffettivo eppure dolcemente goffo, capace di crescere da solo il figlio, di essere padre e madre insieme, tra sughi bruciati e maldestri gesti di cura, coperti dalla vergogna, dal senso di inadeguatezza. Sono commoventi le pagine in cui Caruso rievoca, senza nominarla, l’assenza della madre di Eloi morta per malattia. Il dolore della perdita trapela dal tentativo di Nevio di cucinare un piatto di spaghetti al figlio, un piatto immangiabile e dal sapore acido, eppure denso d’amore:

«Nevio rovista nelle stoviglie accatastate nel lavandino; Eloi, seduto al suo posto del tavolo, lo sente mentre si affanna alla ricerca di due piatti puliti. Davanti a lui, la sedia lasciata vuota dalla madre […]. Adesso Nevio esce dalla cucina, ha due piatti di carta in mano, dice che non ha trovato altro, poi la padella con la pastalsugo […]. Riempie il piatto di Eloi, gli spaghetti straripano sulla tovaglia, chi se ne importa, era già macchiata. Il figlio inforca il primo gomitolo e lo mette in bocca: sa di acido, di ascella, a fatica ingoia il primo boccone, quindi poggia la forchetta e agita il bicchiere vuoto, Nevio gli versa subito dell’acqua, poi comincia anche lui a mangiare […]. Ci mette un po’ il padre a capire: “Non ti piace, eh?”, Eloi fa no con la testa, Nevio alza le sopracciglia preoccupato. “Ti faccio qualcos’altro?”, ma non servirebbe a niente. “Mi spiace”, dice Nevio, “ci ho provato”».

La salita verso il Monte, dove si compirà il sacrificio del padre (forte è l’ascendenza biblica, calata in un contesto pagano che l’autore rende impalpabile e mitico), è per Eloi un viaggio al termine dell’adolescenza, quella frase prolungata a dismisura che ci rende eterni figli, ragazzi per sempre. È forse questo che occorre fare, recidere i legami con dolore, perdersi per ritrovarsi e lasciar andare i ricordi, i pezzi di vita che non ci appartengono più? Con la storia di Eloi e Nevio Barra – che è poi la storia di Chronos e Déu, che «realizzò la profezia uccidendo il padre» – Ignazio Caruso rinnova l’attualità del mito, il suo carattere eterno e perennemente ri-declinabile. Da anni non si parlava di parricidio (chiaramente metaforico), fuori dalle categorie politiche o tardo ideologiche. Una grande prova d’esordio, in cui nessun risentimento turba lo sguardo lucido e acuto che l’autore spiega sul mondo e sulla storia, in perfetto equilibrio di stile e senso.

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