L’ablazione. Un dramma di psicologia sanitaria

L’ablazione. Un dramma di psicologia sanitaria

Recensione di Gattonero. In copertina: “L’ablazione” di Tahar Ben Jelloun, Bompiani, 2014

Non credo sia stato facile scrivere questo libro; non è facile da leggere, e risulta difficile da digerire e da capire a fondo, salvo conoscerne a priori il peso e la portata. E, in questo caso, anche commentarlo non diventa affatto semplice.

Se quello di cui tratta fosse esposto da un medico, meglio da un chirurgo, meglio ancora da un chirurgo urologo, avrebbe il sapore di un racconto di fantasia medica, in cui la descrizione avrebbe forzatamente una sua freddezza professionale; le sensazioni e le paure sarebbero frutto di una ripresa, di una videata, di una presa indiretta di quanto viene raccontato.

Parla, il testo, di un matematico che affida a uno scrittore famoso la descrizione del suo accidente, nella parte fisica e, soprattutto, in quella psicologica. Per cui dopo un breve prologo, quasi asettico, l’autore fa passare il protagonista alla prima persona singolare, dando al racconto il sapore di un disagio profondo, mai velato, dovuto alla scoperta di un tumore, di un brutto tumore (pur escludendo che esistano o possano esistere tumori meno che brutti), che dai primissimi, quasi ignorati, segnali segue la sua evoluzione diagnostica, seguita dalle cure messe in atto per eradicarlo, e alle prestazioni successive all’intervento per tenere sotto controllo quanto salvato.

Tutta la parte ‘tecnica’ del racconto risulta essere un supporto a un rimescolamento di sensazioni, di paure, di prese di coscienza che niente sarà più come prima. Mai più. Mi sono andato a guardare l’etimologia precisa del termine “ablazione” che dà il titolo a questo romanzo: di primo acchito ho trovato che si riferisce a particolari interventi mini invasivi relativi a fatti cardiaci. Che già non è che sia proprio zucchero filato.

No, l’ablazione di cui si parla riguarda una parte del corpo umano maschile che, a torto o a ragione, ha per la mente dell’uomo un’importanza capitale. Forse sarebbe stato più esatto, più rispondente, dire asportazione, ma capisco che avrebbe potuto fuorviare il lettore che si fosse fermato al solo titolo; sostantivo che peraltro è poi richiamato nel testo.

Infatti di asportazione si tratta: della prostata. Ossia della parte mascolina dell’uomo, quella su cui si basa l’ancestrale valutazione della sua virilità. Racconta il dramma di un uomo che, intorno ai sessant’anni, si ritrova all’improvviso con un tumore prostatico. Parla dei primi sintomi con dovizia di particolari, gli esami, la vergogna della messa a nudo di parti di sé solitamente occulte, dell’introduzione rettale per arrivare alla diagnosi finale che non dà possibilità di scelta.

Bisogna inoltrarsi nella lettura, soffrendo con il protagonista, partecipando alle sue sofferenze fisiche, ma soprattutto partecipando alla sua lenta presa di coscienza che la dipendenza da una ghiandola non può essere il destino di una vita. E infatti alla fine si adegua, superando periodi depressivi alternati ad attimi di speranza per una soluzione possibile a una vita, nonostante tutto, degna di essere vissuta. Un calice, da sorseggiare fino all’ultima goccia, ancorché si tratti di un calice di fiele.

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