Male a est. Andreea Simionel e ciò che “può ricominciare”

Male a est. Andreea Simionel e ciò che “può ricominciare”

Recensione di Riccardo Sapia

Parlare di un libro, di un romanzo per l’esattezza, è un’attività che reputo assai difficile, presuppone coraggio e responsabilità, la responsabilità di non fraintendere e, quindi, di cercare di rispettare al meglio il “messaggio” dell’autore. In questo caso specifico siamo in presenza di un’autrice molto giovane, di un enfant prodige, se mi si consente di utilizzare questo termine per una ultra ventenne, la qual cosa implica una responsabilità doppia, vuoi per quanto detto sopra, vuoi, anche, perché le parole hanno un peso maggiore su un giovane autore, molto più di quanto possano pesare su un autore già navigato. Quelle parole, per dirla come Pirandello, che sono quasi sempre frutto di fraintendimenti, non fungendo, come si vorrebbe, da mezzo di comunicazione, bensì da mera interpretazione, quanto di più soggettivo, e quindi di parziale, possa esistere.

Di una cosa sono certo, del fatto che l’autrice parli una lingua schietta e diretta, con una confidenza e una disinvoltura da far invidia. Andreea Pavel, come la sua autrice, nasce in Romania, dove vive fino a circa dieci anni, per trasferirsi con la famiglia in Italia, a Torino. É un distacco netto, radicale, perché costrette ad abbandonare la loro casa, la loro terra, e a dover ricominciare tutto da capo: città, casa, amicizie e, soprattutto, la lingua, attorno alla quale ruotano gran parte delle pagine del libro.

Il romanzo ha una storia che cambia, si evolve, occupa lo spazio di diverse stagioni. L’intero blocco si presenta suddiviso, però, in due parti principali, due sottoblocchi, che l’autrice configura con due nomi assolutamente pertinenti e significativi: il pesce per la Romania e lo stivale per l’Italia. Nella prima la protagonista è, naturalmente, nella sua terra d’origine, in cui si esprime e si muove con disinvoltura, seguendo sempre il filo del suo carattere forte e intraprendente, per quanto già nell’aria si respiri un’aria di imminente cambiamento, con tutte le incognite possibili, persino per una ragazzina della sua età; nella seconda parte, dopo un viaggio che aveva tutta l’aria di essere una vera e propria diaspora faticosa ma anche seducente, Andreea si ritrova tra coetanei che parlano un’altra lingua, in una città, Torino, le cui vie non combaciano più con quelle di sempre, della sua Botosani, e con un futuro davanti a sé ignoto ma, anche per questo, accattivante.

Infatti, Lei, salvo qualche momento di disorientamento, anziché tirarsi indietro appare subito attratta dal fascino della nuova città e da tutte le sue potenziali e occasioni che sembra volerle offrire. Ma, c’è un grosso “ma” lungo il binario che dovrebbe portarla fuori dal suo isolamento: esiste un sentimento di autocastrazione che nasce dalla paura di dover essere considerati diversi, e di conseguenza di non essere accettati, questo sentimento si chiama vergogna. Andreea prova una forte vergogna per non conoscere la lingua italiana, per non sapersi muovere come le compagne e, perfino, per abitare in una zona di Torino povera e malfamata, lontana dalle abitazioni delle sue compagne. E la vergogna condiziona, eccome, soprattutto i giovani, i giovanissimi, ancora privi degli strumenti necessari per imporsi e imporre il proprio essere, con la dignità che meritiamo tutti a questo mondo, nessuno escluso.

È come un mito che si rompe, insomma, il mito del paese dei balocchi che spesso l’Italia interpreta a chi ci guarda da una certa parte di “oltre frontiera”, ma che, una volta messo piede su questo paese, si spezza. Ci si rende conto che ovunque ci si trovi qualsiasi cosa ha un prezzo, o meglio, niente è, per dirla volgarmente, gratis. E non sto parlando solo ed esclusivamente di soldi, ovviamente.

Questi sentimenti di inadeguatezza, però, esistono per motivi diversi anche nel paese di origine. Si prova vergogna per mostrare più di quanto sia socialmente accettabile in un paese povero come la Romania: provano vergogna quando acquistano il computer con i soldi mandati dal padre, provano vergogna nel dire che il cane, un regalo per la sorella, è costato quattro milioni di Leu, alla cui notizia la zia dice: “Quattro milioni è un vitello! Un agnello!”

Acquistare qualcosa che non renda economicamente è una vergogna, è inconcepibile, insomma.

È a questo punto che, riflettendo, sono arrivato a una conclusione: l’autrice (potrebbe benissimo anche essere un’operazione inconscia, il che darebbe ancora più valore a questo sentimento che pervade tutto il romanzo) vuole dirci che il sentimento di vergogna nasce sempre da un bisogno di omologazione cui ci si sente obbligati per essere accettati dagli altri. La differenza è che in Romania il bisogno è quello di omologarsi verso il “basso”, mentre in Italia è esattamente al contrario, qui da noi loro non si sentono all’altezza, quindi è un bisogno di omologazione verso l’alto, al quale arriveranno, se arriveranno, col tempo, e nel frattempo si cerca in tutti i modi di colmare le “lacune” mediante le bugie, come quella di quando Andreea, la protagonista, nel farsi riaccompagnare a casa dal papà della compagna di classe, gli inventa un indirizzo che secondo lei sarebbe stato all’altezza, con la conseguenza di doversela fare a piedi, poi, per raggiungere casa sua.

Dopo tutta questa premessa, con la quale mi auguro di non avere spoilerato nulla ma soltanto suscitato interesse, posso dire che “Male a Est” è un romanzo che si sviluppa attorno a tre temi principali che sono, per quel che mi riguarda, di grande impatto sociale: migrazione, integrazione e lingua (di origine e di arrivo). Ce ne sarebbe un altro, di tema, presente nel testo, anch’esso molto importante, la fanciullezza. Che poi, è proprio quello il punto di partenza (e di arrivo), la giovinezza, perché lei, Andreea, è da ragazzina che parla, da ragazzina migra e da ragazzina sente e vive tutte le paturnie possibili per una ragazzina della sua età, appunto. Ma come tutti i suoi coetanei, o quasi, Andreea è dotata di grandi risorse, straordinarie nel suo caso, le quali, malgrado non risolvino il problema del sentimento di inadeguatezza che vivono lei e tutta la sua famiglia, la attrezzano senz’altro per affrontare questo nuovo mondo che l’aspetta.

Nel frattempo, noi ci godiamo le sue pagine, dentro le quali troviamo, sì, sociologia, antropologia, psicologia (come già detto sopra), ma anche tanta ironia: “la moquette è contenta”, “il libro non muore”, “i vestiti sono stanchi”, “in corridoio il neon è morto”.

E ancora: “(la casa) ha le metastasi alle pareti”, “le pareti devono spostarsi quando passiamo”;

E che spesso vira verso un vero e proprio cinismo: “Mia madre dimagrisce. Espelle l’Italia, mentre noi la ingeriamo”.

Buona lettura!

Post correlati