“Vite di Cristallo”. Da Scalea l’inno alla vita di Anna Cervati e di Francesca Lagatta

“Vite di Cristallo”. Da Scalea l’inno alla vita di Anna Cervati e di Francesca Lagatta

Recensione di Martino Ciano. In foto: “Vite di Cristallo” di Francesca Lagatta, Rubbettino, 2023

Il racconto di una storia vera entra nella vita di ognuno e chiede conto, a chi legge, su cosa sia la propria esistenza e anche sul modo di rapportarsi verso ciò che lo circonda. Logicamente, il discorso non verte sulla banale locuzione “c’è chi sta peggio di me, perché mi lamento”, infatti un giudizio del genere sarebbe ancora più limitante. Quando veniamo a contatto con qualcosa che “turba” la nostra visione del mondo, la reazione dovrebbe essere “l’agire” in un altro verso. Se da una parte può essere giustificata “l’ignoranza”, ossia non sapere di qualcosa, dall’altra non potrà mai essere assolta l’indifferenza.

A ciò mira “Vite di cristallo”, libro edito da Rubbettino, scritto dalla giornalista di LaC News 24 Francesca Lagatta. In queste pagine viene raccontata la storia di Emanuele De Bonis, morto a Scalea, l’uno settembre 2023, all’età di 49 anni, a causa delle degenerazioni dell’adrenoleucodistrofia, malattia con cui quest’uomo ha convissuto per 41 anni.

È rimasto in un letto in stato vegetativo, accudito dalla sua famiglia, soprattutto dalla madre Anna Cervati, che ha sacrificato la sua esistenza con la speranza di vedere un giorno suo figlio alzarsi da quel letto, che invece è diventato il suo giaciglio dall’età di otto anni.

All’inizio degli anni Ottanta, in un alto Tirreno cosentino in cui c’erano pressappoco gli stessi problemi di oggi, se non peggiori, visto che situazioni del genere erano “private”, poco “condivisibili”, e soprattutto nessuno avrebbe potuto tentare la carta dei social, Anna comincia la sua battaglia. Lei che era nata in Calabria, che si trasferì insieme alla famiglia per lavoro in Lombardia, che ritornò a Scalea solo per amore di un uomo che poi sarebbe diventato suo marito, aveva conoscenza degli usi e dei costumi locali, ma aveva anche imparato qualcosa del Nord, ossia che i diritti non sono favori.

All’epoca, quando Emanuele ebbe i primi sintomi di questa malattia che manda in tilt il cervello, perché ne aggredisce la guaina protettiva, si sapeva pochissimo e certamente gli ospedali calabresi non erano in grado di trattarla. Infatti, giunta la diagnosi da un nosocomio del Settentrione, che a sua volta si era dovuto affidare a un presidio statunitense, Anna apprende che suo figlio avrà al massimo due anni di vita. Ebbene, Emanuele è arrivato a 49 anni, di cui 41 da malato.

La domanda sorge spontanea: Come è stato possibile?

Sicuramente, è stato merito dell’amore di Anna, quello che solo una madre può avere verso i suoi figli. Un amore che davanti alle difficoltà si è tramutato in lotta continua. Emanuele infatti è stato curato sotto ogni aspetto; nulla è stato lasciato al caso. Mamma Anna ha studiato, ha aperto i libri di medicina e ha fatto un po’ come Augusto Odone, un piemontese emigrato negli Stati Uniti, che proprio in quegli anni lasciò il suo lavoro da dirigente di banca per assistere suo figlio Lorenzo, che aveva la stessa malattia di Emanuele.

Quando leggo queste pagine, visto che Anna e Odone si incontrarono e collaborarono, mi viene un flash. Infatti, quelli della mia generazione ricorderanno bene il film su “L’olio di Lorenzo”, questa medicina scoperta da Odone, presa all’inizio a sassate dalla Comunità scientifica, anche se era capace di rallentare gli effetti nefasti e irreversibili della malattia. Gli accademici però, si sa, poco digeriscono che un comune mortale possa superarli. Quel lungometraggio andammo a vederlo al cinema come “attività scolastica”. L’aver appreso che un caso del genere fosse a pochi chilometri di distanza da dove abito, mi ha fatto riflettere sulla mia ignoranza.

Detto ciò, senza uso della fantasia, immaginate le vite di Emanuele e Anna, di lei e di lui, di una madre e di un figlio che si danno forza a vicenda, che lottano contro un sistema sanitario, come quello calabrese, che da sempre deve curare sé stesso, che come unica possibilità di salvezza hanno quella solidarietà che giunge dalla società civile, mentre le istituzioni fanno orecchie da mercante.

Ultimo aspetto, ma non meno importante, la penna dell’autrice. Francesca Lagatta racconta con delicatezza, sa essere cronista e scrittrice, sa dire con chiarezza e sa fare intendere. Lei è una di quelle che sa bene quanto sia difficile operare come giornalista sul territorio calabrese, perché fin quando si parla di sagre non scontenti nessuno, quando invece certe indifferenze o certi atti lascivi hanno nomi e cognomi, ecco che si grida all’onorabilità violata.

Fatto sta che ne viene fuori un quadro desolante, in cui i forti sono tali solo quando hanno di fronte i deboli e, forse, solo il coraggio di una mamma sa vivere al di là del bene e del male.

 

 

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