Una spada tra noi. Viaggio nella letteratura del silenzio

“Una spada tra noi” è un articolo di Valentina Falsetta. In copertina: “Tavola Calda” di Edward Hopper, 1927
“Il silenzio è cosa viva”, è per questo motivo che le storie basate sul silenzio sono in modo intrinseco legate alla parola, al suono di esse, alla voce.
Tema universale fin dalla letteratura greca antica, quello del vuoto di suono, adesso, è una freccia indistinguibile che viaggia a velocità sulle nostre teste iper connesse, affette da deficit dell’attenzione, vigilanti e mai a riposo (FOMO è diventata una parola del nostro tempo).
Immaginiamo di tornare con la mente alla roccaforte di Troia, una ragazza dall’aria algida impone la sua figura sul muro che abbraccia la distesa di acqua chiara e sembra poterla fermare.
Che cosa fanno le parole: pensa a questo, fra le altre cose della sua vita, la Cassandra narrata da Christa Wolf.
Cosa fanno le parole. Mentono, mentono quasi tutte, scrive Goliarda Sapienza nel suo L’arte della gioia: bisogna svestirle dei vecchi significati impregnati di storie e spiegazioni fasulle, gabbie dorate. La discesa di Troia in una guerra suicida è il paradigma di una Storia universale: dei mondi circoscritti, ridicoli, degli Stati, delle piccole comunità. Di potere esercitato ad alti e bassi livelli, insomma dei rapporti di forza fra uomini, di uomini sulle donne, di donne sugli uomini. Di costruzione del nemico, di cambiamento del linguaggio in base alla linea politica da seguire.
Quando l’ascoltatore capta dai vari mezzi di informazione la parola “governabilità”, per esempio, quale idea si costruisce? Viene invocata con fermezza, associata ad altre parole, bellissime e astratte, e tanto più sono astratte tanto più nascondono concetti sfavorevoli a chi dovrebbe accettarli. Governabile è il gregge, con il bacolo, ma governabile può essere un gregge asservito da sé, con una sorta di prostrazione interiore. Nel cambiare gli equilibri di potere c’è sempre una parte che soggiace e soccombe, e di solito non è mai quella che promuove una distribuzione diversa. Gli Eumeli delle storie del mondo spodestano i Priamo con leggerezza e furbizia, oppure vengono eletti, applauditi e creduti fino all’atto estremo: c’è però la consolazione che prima o poi, sulla linea temporale, arriva sempre un’altra parola, un altro racconto.
Quella ragazza temeraria sul bastione osa cercare la voce, e quindi la propria capacità di prevedere (null’altro che leggere le conseguenze degli accadimenti intorno a lei,) fuori da un Dio, senza prostrarsi a un Dio. Cassandra in cerca della voce deve amputare da sé l’amore per il padre: anche quelli che amiamo, chiusi nel loro silenzio, possono essere insensibili ai nostri avvertimenti. Noi stessi siamo sordi e deludenti. Aristocratici che perdono l’udito, la comprensione della realtà, amazzoni, vincitori e vinti che perdono umana pietà sul campo di battaglia. Corpi martirizzati giacciono sulle spiagge troiane e fumi di salme bruciate salgono al cielo, urla di violenza sulle concubine si arrampicano fin sui muri e penetrano il bosco. Anchise modella il legno nei rifugi sullo Scamandro, modella una società diversa con parole contrarie a quelle del racconto di palazzo, lì, nel silenzio in cui nessuno tranne pochi osano: per lui serve “combattere il male prima, quando ancora non si chiama guerra”, distruggere quindi la logica della guerra, smascherare il ragionamento per cui prima si inventa il nemico e poi si sostiene il bisogno ineluttabile della guerra.
“Cominciai a fare attenzione al mio corpo, che, chi lo avrebbe pensato, si lasciava governare dai sogni.”
“Il corpo imporrà il dominio sul pensiero”.
“Nel fondo più profondo; nell’intimo più intimo, là dove corpo e anima non sono ancora divisi e dove non giunge parola, né pensiero, seppi tutto”.
Nel cupo nero della notte giacciono i corpi in rifugi di fortuna, fra frastuoni di scorrerie da sabato sera o bombe nemiche, non importa: il corpo che si abbandona al sonno, all’amato, il corpo che formula nel muto chiuso della gola ma non dice, non scrive. “Tutto un cielo ammanettato in gola” di questioni piccole e grandi, valenza uguale. L’egocentrismo dell’essere umano crede sia sempre la propria la storia più importante, più tragica, non ascolta e non vede. Cassandra che ama Enea e vuole gettare le maschere davanti al popolo, ma sullo stesso piano e ugualmente importante Polissena, Clitemnestra, Paride. Il focus non può mai essere troppo largo, è così che l’essere umano oltre allo scrittore si assolve.
Secoli dopo Cassandra, Han Kang scrive “L’ora di greco”; intravediamo una figura longilinea, vestita di nero da capo a piedi, che attraversa una città coreana assediata dal caldo, infine raggiunge un’aula dove un professore quasi cieco insegna greco antico. Lei spera che quel linguaggio estraneo l’aiuti a ritrovare l’uso della parola, lui si aggrappa alla lingua come strumento evocativo di oggetti e realtà che non vedrà più. Il silenzio della donna è come un tronco vuoto, morto. Come in Cassandra “nell’ intimo più intimo”, in un luogo più profondo della gola e del cuore, qualcosa si rompe: il meccanismo fisico che porta ad esprimere il pensiero in parole, l’udito che si chiude in un silenzio bianco e ovattato. (Il corpo impone il dominio sul pensiero.)
“Ma la cosa più penosa di tutte era che sentiva con una chiarezza agghiacciante ogni singola parola che le usciva di bocca. Perfino la frase più banale lasciava intravedere con la trasparenza del cristallo perfezioni e imperfezioni, verità e inganno, bellezza e bruttezza. Lei si vergognava di quelle frasi, che si dipanavano bianche come ragnatele dalle sue mani e dalla sua lingua. Le veniva da vomitare. Le veniva da gridare.”
I suoi sogni sono fatti di neve che scende pesante e si accumula. Una parola sola, unica: racchiude in sé tutte le parole del mondo, sta per esplodere, sta per fagocitare qualsiasi cosa; tutto il mondo implode.
I miei sogni sono fatti di bocca sempre ostruita da materiali di vario tipo, non riesco a parlare, devo continuamente scavarmi la bocca dalle pietre che la ostruiscono, o devo togliere la gomma da masticare dai denti. Un urlo ancestrale, spaventoso, dal cuore della terra mi risveglia i sensi fra tachicardia e sudore.
Il romanzo di Kang inizia con l’epigrafe voluta da Borges: “C’era una spada tra noi”. Per il professore di greco questo è un evidente riferimento alla cecità dell’autore, per altri un riferimento al mito nordico.
Qual è la spada che ci divide dal mondo? Il silenzio o la parola?
Il silenzio non compreso, le cose taciute o nascoste, oppure la parola fraintesa, la parola menzognera e mistificatrice? Potremmo tentare una risposta dicendo che se lo sono entrambe, o se lo sono mille altre cose poiché ciascuno ha la sua, quello che rimane nello scavare la materia umana, sempre uguale e sempre diversa, non è altro che la scrittura stessa. Allora la misteriosa spada di Borges potrebbe essere il genio, l’astrazione dal mondo di una mente persa nel ragionamento e nell’atto creativo, (la missione di Cassandra è l’atto creativo, pur sapendo della propria morte; la ricerca della parola perduta nel vuoto di sé stessa è la missione della donna coreana e atto generatore) piuttosto che nel presidiare il proprio momento presente attraverso l’altro. Alla fine della luce esistere sarà stato, forse, cercare o riconoscere la propria spada.
“Una spada tra noi pensò di nuovo. E poi: sdraiati fianco a fianco come nemici mortali. Ma erano solo parole.”
Arthur Schnitzler, Doppio sogno