Poesia e Prosa: Alessio Barettini su quattro recenti pubblicazioni

Articolo di Alessio Barettini
Analizziamo qui comparativamente quattro recenti uscite del panorama letterario italiano, quattro uscite ascrivibili a un campo di scrittura che vive fra poesia e prosa in prosa
Poscienza, Roberto Maggiani, Il Ramo & la foglia, Roma, 2024
Poesia e scienza sono due mondi separati? Cosa accadrebbe se vivessimo una tradizione culturale che non le avesse mai separate? Le poesie di Roberto Maggiani non sono solamente poesie che contengono elementi di matematica, di fisica, di scienze. O meglio, li contengono, ma Maggiani non si limita a esplorare i contenuti scientifici con un linguaggio poetico. Le poscienzìe vivono dell’esigenza di mescolare il linguaggio della scienza a quello della poesia con l’obiettivo di creare uno spazio mediano fra i due insiemi.
Esse vivono in virtù di questo connubio che si esplica in esperimenti grafici, giochi linguistici, riflessioni lessicali portate al limite del senso e che grazie a ciò si fanno esistenziali prima, mostrando come l’uomo e il suo sapere non sono insiemi chiusi e statici, e segni di apertura poi, perché vivono in uno spazio mediano, purtroppo spesso invisibile, ma di contatto reale fra questi mondi, molto più di quanto non sia vero il contrario, ovvero l’idea di una categorizzazione netta, una separazione dei campi che siamo abituati nostro malgrado a dare per scontata.
Così gli stati d’animo, i tormenti, le gioie, i sentimenti tutti, la cui espressione è da sempre egemonia della parola, si collocano qui in uno spazio linguistico sperimentale che dimostra che il lessico scientifico può combinarsi anche al di là di forme esplicative o meramente dimostrative. Ogni lettera è un grafema, ogni parola un fenomeno naturale. Lessico e segno grafico-linguistico si combinano in direzione di un’esigenza di esplorare un limite specifico che è proprio dell’uomo: quel limite fra finito e infinito che è costante contrasto nello svolgersi della natura e del tempo.
«Tutto nel cosmo può essere alfabeto o lingua», e così le poscienzìe di Roberto Maggiani esplorano esseri viventi, biomi, particelle e universi, cervelli e corpi, vegetali e animali come se potessero offrire una mappatura significante di tutto il cosmo, come se il cosmo fosse un immenso calligramma. Il poeta è allora uno scienziato che osserva, silenzioso, nascosto, la cui scrittura, quatta quatta, offre un modo di ricomporre il reale che nei toni si fa ancora di salvezza, piacere di scoprire e di cercare una chiave interpretativa dell’esistenza lì dove non si era soliti guardare.
Definizioni
L’universo è la tasca vuota
in cui s’infila una mano generosa
e lascia qualcosa
prima o poi la tasca si bucherà
ma potrebb(e_e)ssere
la pozza felice
vicin(a_a)lla ferocia dell’oceano
il sole asciugherà la pozza
o la pietra senza pretese
che divide i gorghi
dal ristagno mite del pesce
la piena travolgerà il ristagno.
Tra gli scienziati c’è chi giura
si tratti di un cartoccio
di calamari fritti.
La spirale
Se chiami ti rispondo
{non appena sentirò
la tua voce tra i neuroni…
non so quanto sia reale
quell’impulsoelettrico
che si dipana dentro.
Allo stesso modo guardo il cosmo
che ci attraversa senza senso
non riesco a concepire
come tutto questo avvenga e dove
ci deve pur-essere un principio
sotteso-al-mondo
[una spirale riporta sempre il pensiero al centro
(nel momento esatto in cu(i_i)l cielo minaccia pioggia)]}
Minimo Strutturale, Eda Özbakay, Piédimosca, Perugia, 2024
La lingua di Özbakay sin da subito mette in luce un intento definitorio ineludibile, un’intenzione procedurale che si concentra sulle nostre dinamiche e le nostre abitudini mentali nell’idea che guardando con minuzia si possa intuire dove l’abitudine è cancrena linguistica e le dinamiche meccanismo fallace.
Da qui la scrittura si fa, automaticamente e naturalmente, portatrice di un lavoro di ricerca sui margini, su un prima originario e su un dopo indicibile, su un subito-fuori e su un rimescolamento del già-dato. La ricerca costante genera per forza di cose nuove forme che possono diventare nuovi schemi, e si può ricalcare antiche imposizioni linguistiche fino ad offrire nuove suggestioni.
Sempre i significanti appaiono mobili, inseriti nello spazio, particelle di un cosmo di geometrie esistenziali che si interrogano senza sosta su origine, fine, compimento e oltre. I brevi testi della raccolta sono composti seguendo uno schema generale che appare ricorsivo e quindi di per sé potenziale veicolo di senso. Özbakay vi arriva per sottrazione, come se la poesia fosse una disciplina plastica, scarnificando ora parole ora pagine in nome di un’essenzialità che trova il suo spazio, il suo logos in maniera archetipica, finale, mai ampollosa, mai oggetto ambiguo-interpretabile.
Anche quando la scrittura esce dalla pura teoria non prende mai il largo, perché la scelta di restare dentro un’idea di nitidezza e di autoaffermazione risponde alla richiesta di identificare spazi di luce, materiali, colori, oggetti, singole parole che suggeriscano costellazioni di senso. Così un senso di vaghezza resta solo ipotizzato, perché sempre collocato dentro certezze visibili, pur piccole e limitate, liminari e surreali, evidenziate dalle stesse possibilità della parola.
Esiste dunque centralmente una direzione, una necessità, nella scrittura di Özbakay. Ma il finalismo è solo apparente, perché dietro l’angolo attende l’imprevisto che lascia al lettore lo spazio di uno scarto che sfugge a forme definite. Così i nomi di certe pagine, reiterati nella struttura generale dell’opera, come frontiera, esterno, si spiegano solo nel loro valore originario, che è volontà di dare un ordine al testo, spingendolo verso zone meno classiche come il calligramma, il cut-up, la scomposizione del testo, che scontrandosi infinitamente possono riportare a una riflessione generale sulla definizione del concetto e sull’essenzialità delle cose e della scrittura.
L’origine del vento
la nonna è seduta sul muretto, accanto a lei
il grande thermos blu con l’acqua fresca.
una miniatura di faro, con onde al proprio
interno. spumeggiano al suo tocco, quando
il frangente d’acqua batte contro il vuoto
rivestito di metallo. accanto alla borraccia,
un po’ più in là sul muretto, il secchiello.
sulla plastica rossa le barche a vela, disegna-
te ferme. la nonna sente che è giunta l’aria.
tira fuori un cacciavite a punta e con una
leggera ma sempre più appuntita pressione
buca la borraccia. prima qualche goccia,
poi lo scoppio, la liquefazione. la nonna si
raddrizza e stringe il fazzoletto in testa, a
mo’ di tela. il verso tra pietre d’argento e
l’origine del vento in fronte, s’immette nella
corrente.
Rotor
quando viene la signora U. per badare alle
due figlie dei vicini, le fa giocare nel rotor.
salgono sulle loro biciclette nel cortile perfet-
tamente cilindrico, dove prendono velocità
circolando sempre in tondo. diventa scia,
nella forza centrifuga, il giardino nei loro
occhi, e il verde trifoglio sfuma.
perde la sorella che non riesce a mantenere
la rotazione e si lascia catapultare lontano,
fuori dal vicinato. vince, invece, colei che
continua a girare in tondo, sospesa nel vuo-
to, mentre il pavimento del cortile scompare
graffiando la luce, sotto i raggi di ruota.
Forasacchi, Cristina Pasqua, Piédimosca, Perugia, 2024
Il testo di Cristina Pasqua è diviso in sezioni. La prima è Zizzannia. Qui, in brevi capitoli contrassegnati da una lettera dell’alfabeto e da un nome a esso corrispondente, troviamo Virna, Vale, il cugino T. e la narratrice delle storie, tutte intrecciate fra loro, con tre bambine che sono al centro di una narrazione ritmata, sonora, il rintocco delle loro fantasie in noiosi pomeriggi estivi senza villeggiatura, in un paese di provincia, una zona di niente a inventarsi giochi da fare, le Sfide, che sono giochi sempre al limite, scherzi pesanti che implicano punizioni, atteggiamenti provocatori, dissacratori, divertenti, dove la lingua mescola una ricerca lessicale e un tono colloquiale, dove i tic dei singoli personaggi affiorano e si scontrano ferocemente, eloquentemente, fastidiosamente, come un forasacco.
La seconda sezione, Ortica, presenta brevi narrazioni della violenza, di paure, di omicidi pensati, voluti, subiti o semplicemente raccontati, di scene che si interrompono sempre nel momento del compimento, così da lasciare il lettore in sospeso, a tu per tu con pensieri di paura e di angoscia e di sconfitta che provengono dall’ambiente che è sempre protagonista, un ambiente dimenticato e povero.
La terza, Gramigna, riprende la struttura della prima parte, ma a essere protagonisti sono qui delle mosche da bar: i loro racconti sono sempre dello stesso tipo: violenza, incoscienza, povertà, sconfitta, vendetta, risentimento e rancore, risate amare e dissacrazioni, portati avanti con estro linguistico, coraggio, gusto per il divertimento, fine a se stesso solo nella misura in cui ai destini dei personaggi non sembra concesso altro.
Z di Zorro
«Sfi-de, Sfi-de!», dico io impicciata con
l’elastico che non sono cinque minuti che
giochiamo.
«Chi sbaglia, paga», dice signorina V. nella
sua proverbiale saggezza.
«Senti questa», dico io, e mi arrotolo elastico
intorno alle caviglie. «Ve lo rompo, ’st’elastico.»
Liberata che sono da incaprettamento prendo
ad agitar sacchetto.
«Allora? Chi pesca?»
«Pesco io», dice Cugino T. sbucato dal nulla.
Peggio dei supereroi, c’è cosa che te lo ritrovi
in mezzo agli zebedei senza capire da dove
accidenti sia spuntato.
«E sia», dico di malavoglia. «D’altronde, con
due decorticate simili, non si sa che pesci
prendere», e gli strizzo l’occhio.
Il Tonno pesca la lettera Z.
«Ecco che ci mette nei guai», dice Virna.
«Fantasia alla fiera, tu?», dico io livorosa. «Z
di Zorro, no?»
Così, ci dividiamo i ruoli e si mette su puntata.
Il Tonno fa il sergente Garcia; signorina V.
nel ruolo principale di vendicatore coi baffetti,
che disegno io con Grinta nera; io, spoglie di
Maria Crespo, la bella locandiera. Sarebbe
piaciuto personaggio più di spicco, che so, ne-
mico di Zorro, Demetrio López Garcia, tanto
per funestare Virna ma, insomma, a fare?
Omaccione io non mi ci vedo. «E me?», dice
Vale. Si vagliano ipotesi da Tornado, cavallo
di Zorro, a Diego il muto, fido aiutante, a
pianta. Vince la pianta che questa proprio non
ci ha voglia di fare niente.
Ci si mette più tempo a metterci d’accordo
con le parti nostre che a fare gioco. Cugino
T., niente da fare, non entra nella parte. Virna
scappa a casa e torna con batuffolo di alcol,
perché con i baffetti non ci si vede. Unica che
rispetta regole è Vale, ferma immobile che
dopo un quarto d’ora ci viene il dubbio che ci
sia rimasta stecchita. Alla fine, ripieghiamo su
cantar sigla a squarciagola per vicoli. Tutti in-
sieme, tranne Vale. Quando le affidi compito,
non c’è che dire.
Cercare le parole
Mi hanno chiamato Marziale perché nonno
voleva così. Era fascista fino all’osso e papà
l’ha seguito a ruota. Tutto quello che parla
del partito del braccio teso gli va a genio.
Neri che sono, per forza di cose, si sono
tirati dietro pure nonna, che alla fine quelle
leggi lì le mette in pratica quando governa
piccioni o tira il collo a billo e galline.
Oggi ho imparato una parola nuova. Se mi
annoio, perché mi vietano di uscire con i
figli del Fattore rosso, che ha l’unico podere
vicino al nostro, salgo sullo scalandrino
e tiro giù il vocabolario di pora mamma.
Cerco parole. Non le cerco a caso, devono
essere parole che c’entrano con la giornata.
L’altro giorno, per capirci, ho cercato Ane-
stesia. La mamma di Iole, una compagna
mia, l’hanno ricoverata avant’ieri per un
intervento. «Da sveglia?», ho detto io. «Ma
sei scemo? Le hanno fatto l’anestesia.» Bel
suono, la parola, non c’è che dire. Allora,
ho preso il vocabolario per vedere di che mi
parlava. Insomma, oggi ho cercato Crudele.
L’ho fatto pensando a una parola che mi
parlasse di nonna. La mattina in questione,
che poi è oggi, visto che avevo qualche linea
di febbre, nonna mi ha tenuto a casa. «Resta
qui, Marzia’, vieni alla cerimonia della galli-
na.» «Sissignora», ho detto io, e pensavo alla
Rosina, la gallina vecchia, vestita a nozze,
con strascico, velo e ognicosa. Invece nonna,
che è peggio della madre dell’aceto, pensava
ad altro.
Cerco le parole per spiegare il mondo, quel-
lo che è difficile non è tanto trovarle e tirarle
a memoria, è che parole per parlare della
vita qui non è facile per un cazzo.
Non dire parolacce, dice nonna. Giuro che
non le dico più, ma ora nel vocabolario
cerco un modo per ammazzarla e spero che
lo trovo.
La distinzione, Gilda Policastro, Giulio Perrone Editore, Roma, 2023
Anche la scrittura di Policastro parte dalla richiesta di una lettura concentrata e attenta da parte del lettore. L’immediatezza del segno è subito seguita da un grado interpretativo necessario. Il lavoro di costruzione del senso avviene nelle tematiche scelte da Policastro.
L’autrice salernitana affronta il tema della malattia, degli ospedali, dei farmaci, creando un singolare equilibrio fra quel mondo e tutto il resto, in uno scambio fra essi che si dà continuamente senza mai riuscire a darsi del tutto, o dandosi come necessario. La lingua di Policastro è un veicolo che segna un sistema linguistico dunque sempre interrotto eppure reale e in costante divenire.
La distinzione è un testo in cui si fa ardua la collocazione di un io. «Io, forse, non sono nemmeno qui ad ascoltare», si legge già sulla copertina. Nessun lirismo, solo la costante interrogazione di cosa sia l’io, qualunque io, nel bel mezzo di una malattia, nella sala d’attesa di un medico, nella riflessione su un male, nella semplice osservazione anamnestica di un caso.
I testi cercano un equilibrio fra la malattia e tutto il resto, considerano la malattia come entità singola ma non separata, sempre accettata, la cui singolarità non è data soltanto dal lessico medico, da sintomi e medicine, ma dal rapporto che ciascuno di questi elementi ha con il resto del mondo.
Si tratta quindi di un’operazione di risemantizzazione della malattia, di prosaicizzazione, attraverso i brevi testi (alcuni poesie, altri testi più sperimentali) che lo compongono, utili anche a mostrare i luoghi comuni del linguaggio che attraversano questi temi.
Ma quale schiava? Stai buttata sul letto, nun ciài ‘na
preoccupazione, ma schiava de che?
Quella che strilla, quella che piagnucola, una fa le boc-
cacce. La notte non dormi se non ti foderi le orecchie, i
Notturni non bastano, Mozart. Sobbalzi.
Conclusioni
I testi affrontati presentano dunque dei punti in comune. Risalta nei toni una certa leggerezza della parola (non in senso deteriore o negativo) nei testi di Maggiani, Pasqua e Özbakay, mentre la costruzione del senso è più “scavata”, meno immediata in Policastro, forse perché quello meno poeticamente classico.
L’elemento forse più interessante di questi testi è che in tutti la parola non è mai un elemento già dato, ma da scarnificare, spogliare, ricostruire, ricombinare. In questo senso Maggiani esplora dei limiti che sono persino culturali, disciplinari, Pasqua lo fa attraverso l’ironia e il grottesco arrivando a ricombinare l’approccio al senso comune.
Özbakay riesce a proporre un elemento di ricerca linguistica girando intorno all’essenzialità del lemma, al rapporto fra significante e significato. Il senso comune è certo messo in discussione anche in Policastro, esplorando gli spazi lessicali fra le tematiche centrali e una dimensione esterna, pop, inattesa, come se solo un contesto linguistico e semantico di contrasto possa produrre un segno di riconoscimento.