Un mondo pieno di futuro. Pasolini e il “vitalismo decadente” di una maratona
Articolo di Alessandro Barbato. Foto dal web via Wikipedia
Il 25 Agosto del 1960, Roma e l’Italia si apprestavano a mostrarsi, per la prima volta in assoluto anche attraverso la mondovisione, in occasione della cerimonia di apertura dei XVII Giochi Olimpici dell’era moderna. Un evento che aveva avuto una lunga gestazione, una complessa fase di organizzazione che verrebbe da dire stranamente, pensando alla realizzazione di analoghi eventi odierni, fu quasi del tutto priva di scandali e polemiche. Un appuntamento che sarebbe entrato nella storia del Paese che in quegli anni conosceva uno sviluppo vorticoso che in breve tempo ne avrebbe mutato radicalmente i costumi.
Più di ogni altro intellettuale italiano attento ai cambiamenti e agli stravolgimenti che coinvolgevano l’Italia, Pier Paolo Pasolini, in quel periodo, era alle prese con la realizzazione del suo primo film, il suo primo capolavoro, Accattone; e, da qualche tempo, in qualità di scrittore e intellettuale, teneva una rubrica, in cui dialogava appassionatamente con i lettori dei più disparati temi, sul settimanale “Vie Nuove”, fondato nel 1946 da Luigi Longo che in tal modo cercava uno strumento per avvicinare le masse alle politiche della sinistra italiana. Pasolini che, com’è noto, era anche un grande appassionato di sport, pertanto non si fatica a crederlo entusiasta quando la direttrice di allora di “Vie Nuove”, Maria Antonietta Macciocchi, gli propose di fare da inviato all’evento.
In tale veste lo scrittore partecipò alla quasi totalità delle gare, scrivendo dei gustosi resoconti che, come suo solito, trascendono la cronaca per assumere i contorni di vivide, e anche un po’ provocatorie, analisi sociologiche.
Così, quel 25 agosto di tanti anni fa, eccolo presente alla Cerimonia di apertura dei Giochi, al cospetto di un mondo che sfila, «pieno di futuro», tra gli applausi del pubblico giunto nel nuovissimo Stadio Olimpico da ogni parte del pianeta. E Un mondo pieno di futuro sarà proprio il titolo di quel primo resoconto, pubblicato il 3 settembre del 1960. (Ora in P.P. Pasolini, Romanzi e Racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, «I meridiani», Mondadori 1998, vol. I, pp. 1527-1531.). In esso Pasolini guida il lettore, con un movimento che sembra quasi quello della macchina da presa, già a partire dal viale che conduce allo stadio, notando subito come l’idea di trovarsi in mezzo all’allegra e scanzonata folla che ogni domenica si raduna per assistere a un incontro di calcio, di cui tanto era appassionato, non corrisponda affatto alla realtà di quello che osserva:
“Intorno a me camminava con calma, e quasi in silenzio, una folla del tutto nuova: i vestiti insieme più vivaci e modesti dei nostri, le facce e i corpi meno belli ma più sani, i sorrisi senza ironia e senza volgarità, ma anche un po’ senza vita. Erano quasi tutti stranieri: tra loro galleggiava la testa di qualche romano, sperduto, col sorriso un po’ spento tra le labbra, come appunto deve essere un romano all’estero, con il suo estro come fossilizzato e fatto cosciente, e perciò falso, vecchio. I gelatai gridavano Ice-cream!”. (P.P. Pasolini, Un mondo pieno di futuro, op. cit., p. 1527.)
Anche dentro lo stadio Pasolini nota subito lo strano ordine, così diverso dal clima di una partita di calcio, che regna nella moderna struttura. La stragrande maggioranza del pubblico è composta da stranieri, così accanto a lui, «punticino sperduto nel babelico ovale», non si sentono che parole straniere, «le più inafferrabili», simili a stridi di rondini, quasi come doveva apparire a un greco dell’antichità un qualsiasi idioma barbaro. Pasolini parla anche di facce anonime, facce simili a quelle «dei deportati a Buchenwald o a Dachau: per questo mi sono simpatici, […] non ho mai assistito a uno spettacolo in così rassicurante e fraterna compagnia.»
Roma 1960. La Maratona
Ma eccoci alla cerimonia, l’Inno di Mameli, l’arrivo del Presidente Gronchi. Pasolini racconta che la cerimonia si divide in due parti, molto diverse tra loro, la prima bella e anche commovente, per certi versi. La seconda brutta, «spiacevole». Sotto il sole che cala ecco cominciare la lunga sfilata delle nazioni partecipanti, sfilata che non somiglia affatto a un rituale macchinoso e arido, contrariamente alle previsioni. Apre la Grecia e chiude l’Italia, uniche, anche un po’ retoriche e fastidiose, eccezioni a quell’«istituzione meravigliosa» rappresentata dall’ordine alfabetico. Pasolini racconta degli applausi composti del pubblico, delle piccole trovate che ogni delegazione ha studiato per catturare l’attenzione della folla composta. Entusiasmo per tutti, solo la delegazione della Spagna franchista «spanderà intorno un certo disagio», con lo scrittore che non nasconde di provare una calorosa simpatia per quelle nazioni come il Ghana, la Liberia e, ancora di più, per le nazioni che si presentavano alla sfilata con delegazioni poco nutrite:
“Quelle piccole rappresentative, con la loro bandiera in testa, e per la maggior parte, incapaci di andare a passo di marcia, e con davanti i dirigenti, spesso pancioni e ansimanti, tutti sudati, man mano che si presentavano e passavano, diventavano qualcosa di enorme e imprevisto. Erano, veramente, tutta la loro nazione. Bastava il nome del cartello che li precedeva, e le loro facce quasi sempre umili, di gente modesta, spesso povera, perché l’intero loro mondo fosse evocato. Ed erano brani di storia contemporanea, vivi, come brandelli di carne, sorprendenti o strazianti. Il Giappone, Cuba, parevano portare dentro lo stadio, così puro, così anonimo, la concretezza vivente delle recenti battaglie, delle recenti morti, delle recenti passioni: ma tutto come purificato, diventato esperienza e dolore di ognuno di noi, e, come tale, superato, vinto dall’incalzare del tempo e della storia. Erano come improvvise ventate, una dopo l’altra: il distaccato, tranquillo riassunto, a passo di marcia, sotto lo sventolare delle bandiere, di tutta la nostra ultima storia. Che deve ancora farsi: e si farà, e richiederà nuove battaglie, nuovi morti, nuove passioni.” (Ivi, p.1529.)
Il racconto pasoliniano si fa accorato, l’apertura delle Olimpiadi sembra la metafora dell’inaugurazione di un nuovo corso nella storia della civiltà umana. Una parata in cui è presente, a così pochi anni di distanza da un conflitto mondiale che come non mai aveva stravolto il senso stesso dell’essere uomo, l’intero mondo. Un mondo «incandescente» e pieno di futuro, descritto con toni che ricordano quelli che successivamente il regista avrebbe utilizzato negli straordinari “Appunti per un’Orestiade africana”. «Un mondo che sarà così diverso da quello che ci siamo abituati a considerare nostro: perché gli uomini di colore sono liberi, perché gli stati più poveri cominciano una loro vita civile»; ma anche perché Usa e Urss sono a una svolta decisiva che li porterà a possedere il cosmo, «a riordinare in un’altra organizzazione questa terra».
L’entusiasmo di Pasolini si spegne rapidamente, quando la sfilata lascia il posto alla seconda parte della cerimonia, quella durante la quale il ministro Andreotti pronuncia il discorso di benvenuto:
“E credo sia difficile immaginare un discorso più retorico e provinciale del suo. E interminabile, poi: tanto da finire miseramente tra gli zittii generali. Non parliamo dei rari romani, che cominciavano a fare «Uuuuuh!», «E piantala!», ma degli stranieri stessi, che, benché educatamente, davano segni di impazienza: veramente non riuscivano a concepire il filo conduttore di tanto municipalismo, di tanta povera retorica, di tanto ovvio orgoglio per l’opera svolta, che riduceva Roma (che noi, lo so, abbiamo visto prepararsi con tanto affanno) a un capoluogo di provincia.” (Ivi, p.1530.)
Un discorso che deve aver davvero devastato il cronista Pasolini, tanto che da lì in avanti il tono muta decisamente, con il racconto che prosegue con il resoconto delle fasi più insopportabilmente “retoriche” della manifestazione: l’esecuzione dell’Inno olimpico, l’ingresso della bandiera olimpica, le tre salve di artiglieria, il volo dei piccioni e il suono di tutte le campane dell’Urbe. «Tutto ciarpame decadente e estetizzante, merce del peggior neo-classicismo e del peggior romanticismo», a cui viene assimilata anche l’accensione del sacro fuoco olimpico. Tuttavia la parte più sgradevole e pesante della manifestazione viene presto dimenticata, messa in un angolo come qualcosa che si deve stoicamente sopportare. Del resto:
“Ingoiare e digerire cose del genere è una nostra vecchia abitudine. Resterà la parte più bella: questa giovanile, colorita visione del mondo riunito in una pacifica sfida, questa evocazione dei momenti storici, come staccati dal male e dal bene, quasi pronti a far parte di una coscienza più alta e serena, quella che li giudicherà domani.” (Ivi, p. 1531.)