Tutta la vita che resta. Roberta Recchia e la perdita di un figlio

Tutta la vita che resta. Roberta Recchia e la perdita di un figlio

Recensione di Letizia Falzone. In copertina: “Tutta la vita che resta” di Roberta Recchia, Rizzoli, 2024

“Quando un figlio ti muore il dolore dovrebbe storpiarti il corpo…dovrebbe deformarti, lasciarti le viscere di fuori insanguinanti…e invece…”

Non esiste un termine per definire un genitore che perde un figlio. Se perdi un genitore sei orfano, se perdi una moglie sei vedovo. E se perdi un figlio? Se perdi un figlio, non esiste un termine per definirti, perché sei spezzato, tronco, vorresti solo smettere di esistere, far sì che il tuo respiro si fermi nello stesso momento in cui termina il suo. A maggior ragione, sempre che possa esistere una ragione migliore di un’altra, quando quella perdita è violenta.

Marisa e Stelvio di figli ne hanno due, un maschio e una femmina. Due figli belli come il sole, ma molto diversi tra loro: lui timido e chiuso in quelle note del suo pianoforte che lo hanno portato presto lontano da casa e dalla famiglia; lei, Betta, un vulcano di riccioli biondi ed energia, bella come il sole, spregiudicata come può esserlo una ragazzina di 16 anni.

Betta la vita la ama, la brama, la coglie con lunghe bracciate in quel mare del litorale laziale che l’ha vista morire in una notte che avrebbe dovuto rimanere un segreto tra lei e la cugina Miriam; una fuga dalle camerette della villetta di famiglia, una corsa in spiaggia, alla luce fioca dei lampioni lontani, verso quei falò che sembravano così trasgressivi per delle ragazzine degli anni Ottanta.

Una corsa finita troppo presto, per mano di tre balordi che, in maniera diversa, spezzano le loro vite: Betta non si sveglierà più, violata e lasciata su quella spiaggia che l’ha vista bambina. Miriam, invece, aprirà gli occhi, bagnati dalla pioggia che cade sottile e pungente, ma su quella spiaggia lascerà, oltre al corpo della cugina, la ragazzina che era stata sino alla sera prima.

Struggente, riflessivo, triste e profondo, questo romanzo è un’esperienza emotiva intensa, capace di farti riflettere sulla fragilità della vita e sull’importanza delle relazioni umane. L’autrice approfondisce con grande maestria i sentimenti e le reazioni dei personaggi di fronte alla tragedia, offrendo un ritratto psicologico complesso e credibile.

Un romanzo che, oltre a quello del lutto, affronta tanti temi importanti e attuali come la discriminazione, la tossicodipendenza, la transessualità, la violenza di genere e fa anche denuncia sociale.

Un’opera corale e intimistica: la storia è raccontata attraverso le prospettive di diversi personaggi, offrendo un quadro complesso e ricco di sfaccettature della famiglia e delle relazioni umane.

C’è il giudizio, tra queste pagine: quello della gente, della famiglia, della società: te la sei cercata, l’hai voluto tu. Quel giudizio che vent’anni prima aveva colpito Marisa e che poi è ricaduto sulla figlia.

Ho fatto fatica, a volte, a trattenere qualche lacrima. Come si sopravvive alla perdita di un figlio? È questa la domanda ricorrente nel romanzo, al cui centro c’è appunto il tema del lutto e la sua elaborazione. Si percepisce chiaramente tutto il dolore che vivono Marisa, Stelvio e Miriam e quanto sia difficile andare avanti schiacciati da un peso che quasi toglie il respiro.

Una scrittura potente e delicata: l’autrice deve essere lodata per la sua capacità di dipingere con parole precise e toccanti i sentimenti dei personaggi, dalla disperazione al tentativo di ricominciare a vivere. Ma quello di Recchia non è solo una storia triste e cupa, ma è anche una storia piena di luce, pervasa dall’amore, dalla cura e dalla forza dei legami che riescono a ridare speranza laddove questa sembrava essere persa per sempre.

Il dolore viene vissuto ed affrontato da ognuno in modo diverso. Ogni membro della famiglia reagisce alla sofferenza in modo estremamente personale, intimo. Il mondo si ferma e inghiotte tutti in un limbo privo di luce, speranza, futuro. Si sopravvive tra lo strazio, i sensi di colpa, la rabbia, lo sgomento e un vuoto incolmabile. Vengono scandagliati ogni sentimento, emozione, ferita, silenzio. La cura a tutto questo dolore è, come sempre, l’amore.

I personaggi vibrano nel petto e, nonostante la profonda tristezza di certi passaggi, la storia è un inno alla vita, un’iniezione di forza per chi pensa di non farcela più. Recchia propone un’ancora di salvezza per tutti noi: “Il segreto è l’amore che ti salva, sostiene con te il dolore affinché non ti schiacci.”

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