Tao te ching: al di fuori del pregiudizio e della sapienza

“Tao te ching: al di fuori del pregiudizio e della sapienza” è un articolo di Domenico Frontera. In copertina una foto tratta dal web
Nel Tao-te-ching, opera attribuita dalla tradizione cinese a Lao tzu (VI sec. a.C.), ma probabilmente elaborata e scritta intorno al III secolo a.C., viene messo in discussione il tradizionale concetto di “Sapienza.”
Per questo piccolo libro, composto da 81 brevi capitoli dal piglio lirico e frammentato, il sapere è inteso come una indebita aggiunta al carattere nudo e privo di senso dell’esistenza. Questa è una chiara e diretta critica al confucianesimo del tempo, che invece sottolinea la validità della conoscenza astratta e discriminante.
Per i taoisti, “il flusso della vita” è spontaneo ed innocente, non ha in sé una razionalità, e non può quindi essere valutato e contaminato da un “com-prendere” che, in quanto umano, resta sempre incerto, se non addirittura illusorio.
Nel pensiero occidentale sarà soprattutto Nietzsche ad enfatizzare questa innocenza del divenire che non significa un abbandono della ratio ma la consapevolezza della presenza di una metarazionalità a cui tutto ontologicamete appartiene e che costituisce il limite e il fondamento stesso dell’uomo.
Per il Tao-te-ching, dunque, il saggio ha il cuore delle persone semplici in quanto non coltiva alcun pregiudizio o preconcetto.
Egli regredisce addirittura alla condizione del lattante: come un bimbo (il nome Lao tzu significa “Il vecchio bambino”) è profondamente stupito e meravigliato da ogni evento naturale. Non siamo difronte alla famosa “Dotta ignoranza” elaborata da Niccolò Cusano o al “Non sapere” socratico, perché per il taoismo già questo è un atto di ragione, ma davanti ad una vera e propria “epochè”, sospensione di ogni giudizio, che avviene in modo naturale e spontaneo così come la Via, il Tao, si manifesta nella natura.
Per il Tao-te-ching occorre, dunque, uniformarsi al “Vuoto delle cose” affinché ogni fenomeno possa apparire e riapparire, ogni volta, nella sua massima carica evocativa. Il saggio contempla e tocca il mondo quasi non ne sapesse nulla ed è questo un atteggiamento che rinuncia ad ogni velleità conoscitiva, accanto all’intento di capire il fondamento delle cose.
L’ideale etico del taoista implica, quindi, la “vuotezza”, una mente sgombra dai dogmi e da ogni accenno ad un pensiero fondato sul principio di non contraddizione: “Espanditi sino all’estremità del vuoto e attieniti all’importanza della quiete”. (Tao-te ching, cap. 16)
Il Tao-te-ching non è un libro che espone una dottrina da studiare e mandare a memoria, ma rappresenta invece un tipo particolare di scrittura che persegue soprattutto una finalità terapeutica. L’opera si svolge, al pari delle parabole evangeliche e i racconti sufi, come un cliché: si vuole che il lettore, fruendone, modifichi i propri assunti e la sua “visione del mondo”; qualcosa di molto simile alla moderna psicologia cognitivo comportamentale.
Il libro costituisce, quindi, un invito a ragionare diversamente rispetto al pensiero dominante, ma non si tratta di proporre nuovi concetti (è questo il senso ultimo del “Vuoto” e del Tao) bensì di sgomberare la mente da quelli che già vi si trovano e appaiono disfunzionali, disarmonici, all’esistenza.
In questa etica della “Non significanza” esiste, quindi, un altro modo di interpretare le cose che è differente da quello “violento” e incline al “voler fare” e al “voler sapere.”
Nel cap. 67 del Tao-te-ching vengono presentati quelli che sono considerati i “tre tesori” del taoismo, l’atteggiamento a cui ogni uomo dovrebbe aspirare:
la “Gentilezza” (Tz’u), la “Parsimonia” (Chien) e il “Non osare essere il primo nel mondo” (Pu-k’an).
La “gentilezza” consiste in una disposizione verso la compassione e la disponibilità nei confronti di tutte le creature, perché tutte sono espressione della Via, del Tao. Si tratta però di un parametro etico ben diverso dalla solidarietà o dall’altruismo così come generalmente è inteso.
Qui si suggerisce di non entrare in conflitto con gli altri lasciando essere ciascuno così come è nella sua sfera d’azione o nel suo mondo. Si cerca, in definitiva, di andare incontro all’altro rispettandone le esigenze e le peculiarità, senza pretendere di imporgli schemi o valori.
La gentilezza non è una particolare e pietistica forma di carità; non si tratta di accostarsi al prossimo facendolo sentire in debito o in colpa per l’aiuto o la comprensione ricevuta. Il saggio taoista non soccorre nel senso tradizionale, egli è consapevole che ciascuno di noi è in grado di aiutarsi da solo, occorre solo creare le condizioni per far emergere queste potenzialità senza provocare nell’altro nessuna forma di dipendenza. Attraverso questa “gentilezza” si può osare ogni cosa in quanto non si coltiva alcun pregiudizio verso nessuno e non si ingaggiano lotte per dominare o imporre verità.
La “parsimonia” implica il ritirarsi in sé, senza concedersi al mondo: è un atteggiamento che insiste sul senso di autonomia dell’individuo. Chiunque coltivi questa qualità non ricerca la compagnia degli altri per trarne favori, né si sforza di far loro alcuna concessione perché solo colui che è completamente immerso nella propria individualità, incurante di offrire alcunché agli altri, sarà il vero donatore disinteressato e capace di grandi elargizioni.
Si supera cioè il concetto di ipocrisia e di un Sé fondato sul giudizio degli altri; la parsimonia non è quindi una fuga dalla realtà ma un immergersi in maniera profonda nel “Tutto,” nel “Cielo,” nella spontaneità etica e cosmologica del Tao che si dona ad ogni creatura senza un particolare fine.
Il “Non essere primo nel mondo” significa che il Taoista non si fa avanti, né agogna mai ad una posizione di rilievo. Secondo il principio del “Non agire”, del cosiddetto “Sforzo inverso”, tipico di questa corrente di pensiero, solo chi non desidera di essere primo può realmente conseguire e compiere le azioni più eroiche e appagare le proprie aspirazioni.
“Io posseggo tre tesori che mantengo e conservo. Il primo si chiama gentilezza; il secondo si chiama parsimonia; il terzo si chiama: non osare essere il primo nel mondo. Essendo gentile, posso essere coraggioso, essendo moderato, posso essere liberale; non osando essere il primo nel mondo, posso diventare padrone di tutti gli strumenti. Attualmente si disprezza la gentilezza per essere coraggiosi; si disprezza la moderazione per essere liberali; si disprezza di essere gli ultimi per essere i primi. È la morte! Difatti, colui che combatte per mezzo della gentilezza trionfa; colui che si difende per mezzo di essa è salvo. Colui che il Cielo vuol salvare, il Cielo lo protegge per mezzo della gentilezza.” (“Tao-te-ching,” cap. 67)