È solo questione di tempo

È solo questione di tempo

Racconto di Pasquale De Luca. Foto di Martino Ciano

Sono un vecchio orologiaio fiorentino, ho venduto e aggiustato orologi per tutta la vita qui nel mio negozio in piazza Dalmazia, quartiere di Rifredi. Adesso mi trovo nel retrobottega e c’è qualcosa che non comprendo: il ragazzo con cui ero venuto a parlare, e che mi aspettavo di trovare sereno e sorridente, ha invece un’aria pensierosa.

Esita, teme che non gradirò quello che sta per dirmi. Stringe al petto la copia della Gazzetta dello Sport che ha fra le mani e alla fine sputa il rospo: «Stai commettendo un grave errore.»
«Ero venuto per parlare con te di ciclismo, della vittoria di Merckx al mondiale in Olanda, e tu mi vuoi far parlare di un argomento spiacevole.»
«È l’unica cosa che in questo momento dovrebbe contare per te.»
«Che esagerazione!» esclamo, e cerco di intuire dalla sua espressione se sia davvero tanto preoccupato per me.

Ha diciassette anni, capelli castani lunghi che gli coprono le orecchie, pantaloni jeans chiari, camicia attillata piena di fiorellini colorati.
«Hai un problema di salute e non stai facendo la cosa giusta.»
«Che intendi?»
«Tieni all’oscuro i tuoi familiari.»
«È un piccolo problema, non voglio farli stare in ansia inutilmente.»
«Per i piccoli problemi di salute c’è il medico di famiglia, invece tu domattina hai appuntamento a Pisa con uno specialista neurologo.»
«Il professor Malaguti è un luminare. Metti via codesta aria triste, io sto bene.»
«Curioso che uno che abita a Firenze e sta bene decida di punto in bianco di andare in gran segreto a Pisa per farsi visitare da un luminare della neurologia.»
«Pisa non è in culo al mondo, prendendo la superstrada in auto da Firenze ci si impiega un’ora. Il nome del professor Malaguti me l’ha suggerito un amico che aveva un problema neurologico simile al mio e grazie a lui l’ha risolto.»

Scuote la testa, per nulla convinto dalla spiegazione che gli ho fornito. Il giornale sportivo che ha in mano è piegato in due. Nella parte superiore della prima pagina spicca la foto di tre ciclisti impegnati allo spasimo in uno sprint sulla linea del traguardo. Quello al centro e quello sulla sinistra hanno il viso contratto nello sforzo, bocca aperta, narici dilatate. Il terzo ha una posizione più aerodinamica, la schiena inarcata, testa bassa, braccia tese sul manubrio. Sembra riuscire a produrre più potenza degli altri ma non è così, la ruota della bicicletta del corridore al centro è davanti alle altre due di qualche centimetro e sta già tagliando vittoriosa la linea bianca del traguardo. Di questo bellissimo sprint volevo parlare con lui, non dei miei acciacchi.

«Il problema non è la distanza fra Firenze e Pisa ma che tu ci vada di nascosto, senza dire nulla a tua moglie e ai tuoi figli.»
«Si tratta di un silenzio provvisorio, non lo manterrò a lungo. Mi confiderò con loro dopo la visita neurologica, quando sarà una volta per tutte confermato che si trattava di un falso allarme.»
«Vorranno sapere per quale motivo non li hai informati subito.»
«Dirò la pura verità: non volevo metterli in apprensione inutilmente. Capiranno. Ti pare così sbagliato?»
«È un grave errore, non approvo questa tua scelta. Tuttavia sono e sarò sempre con te, lo sai.»
«Il tuo appoggio mi dà forza.»
«Sii fiducioso, andrà tutto bene, vedrai. Il professor Malaguti capirà quello che hai, ti darà la cura più efficace e ne uscirai presto. Devi crederci, è solo questione di tempo.»
«Sì, ci credo: è solo questione di tempo.»
«Bravo, la fiducia è una medicina potente. Quali sintomi hai?»

Mi tremano le mani sarebbero le parole giuste ma taccio perché, mentre sto per pronunciarle, la mia attenzione viene assorbita da uno strano fenomeno che accade all’interno della mia testa. Un agglomerato di forme e di luci che si muove come la giostra di un Luna Park. Lampeggiano macchie rosse, arancioni, azzurre, verdi, indaco, viola, poi si sfilacciano, impallidiscono e sfumano in una grigia penombra indistinta. Dal muto nulla della luce che fu, piovono soffusi tonfi che si moltiplicano, oscillano in una cantilena che acquista vigore, tono, ritmo, diventa una voce melodiosa. La riconosco. È la voce di Nicola Arigliano che canta È solo questione di tempo, una canzone dell’anno 1961.

È solo questione di tempo ha detto un momento fa il ragazzo con la camicia caleidoscopica da hippie degli anni ‘60.
È solo questione di tempo ho ripetuto io.
È solo questione di tempo gorgheggia Nicola Arigliano imprimendo alle parole uno swing che fa venire voglia di schioccare le dita per seguirne il ritmo dondolante.

Niente avviene per caso, ogni azione umana ha una causa e uno scopo. L’azione in atto è il proferimento delle parole È solo questione di tempo da parte del giovane con la Gazzetta dello Sport in mano e di Nicola Arigliano, la causa di questa azione è la loro volontà di incoraggiarmi, mentre il suo scopo è di rafforzare in me la convinzione di non essere affetto da un male grave e la fiducia in una rapida guarigione.

La prima volta che ho ascoltato Nicola Arigliano cantare È solo questione di tempo era l’autunno del 1961, una sera passata in casa davanti alla televisione insieme ai miei genitori, Clelia e Piero erano i loro nomi, a guardare una trasmissione che si chiamava Canzonissima. Avevo undici anni, Nicola Arigliano in giacca e cravatta, con un sorriso volpino attorno al naso aquilino, cantava mentre quattro ballerine dalle lunghe cosce avvolte in calze a rete gli ballavano attorno. La mia attenzione non fu attratta tanto dalla circostanza che le ragazzone si dimenassero tenendosi a distanza di sicurezza da lui – pur se ancora bambinetto, capivo che tale atteggiamento era collegato alle parole della canzone in cui Arigliano si diceva certo che una lei, nonostante facesse la preziosa, non avrebbe potuto resistergli, lui l’avrebbe conquistata, era solo questione di tempo – quanto dal fatto che Arigliano si rivolgeva a quattro ragazze con frasi declinate al singolare, cantava a una pluralità di femmine versi che erano diretti a una sola femmina.

Scandagliai il dilemma se il tempo che Arigliano consumava cantando al quartetto delle ragazze dalle cosce lunghe fosse unico o divisibile in quarti, se ciascuno dei quarti fosse da attribuire, e con quale criterio, a una sola delle quattro ballerine, ma arrivai alla conclusione che fosse un falso problema: il tempo della canzone era la misura della durata del corteggiamento che consisteva nella canzone stessa, e nessuna importanza aveva che le ballerine fossero quattro o quattromila, anziché una, dal momento che la cosa la cui durata il tempo della canzone misurava era la canzone stessa e la canzone era una e una sola e la sua durata non sarebbe cambiata neppure se le ballerine fossero state un milione.

In quell’autunno del 1961 erano già due o tre anni che il tempo e il suo scorrere venivano di quando in quando a occupare i miei pensieri di bambino. Da quella volta che, in terza o quarta elementare, io e il mio compagno di classe Bruno stavamo giocando ad affidare alla mite acqua d’un torrente quasi in secca di nome Orme le barchette che fabbricavamo con pagine di vecchi giornaletti. Mi misi a contare con le dita delle mani quanti secondi le barchette di carta impiegavano a passare sotto un ponticello sul torrente Orme e intuii che doveva esserci un legame fra il tempo che prendeva forme numeriche sulle mie mani e lo spostamento dell’acqua.

Tutto passa, è solo questione di tempo. Tutto passa, insieme al tempo in cui ogni cosa è stata. Tutto passa, mentre scorre il suo tempo. Il tempo scorre e passa. Come fa l’acqua del fiume. Sono passati trenta secondi e n milioni di metri cubi d’acqua sotto i ponti di tutti i fiumi del mondo, da quando il ragazzo con la Gazzetta dello Sport in mano mi ha chiesto: «Quali sintomi hai?». Mi tremano le mani, una frase di quattro semplici parole, umili. Non sarebbe una grossa fatica pronunciarle, se solo ne avessi voglia. Invece, non mi va.

Potrebbe dipendere dallo strano fenomeno delle scie colorate che formavano la parola TEMPO e turbinavano dentro la mia testa come fasci di luce laser sul palco di un concerto di musica rock, oppure dal loro dissolversi nella suggestione del ricordo d’una canzone jazz di Nicola Arigliano risalita dall’anno 1961 fin dentro la mia testa, ma in realtà non sono per nulla convinto che la mia riluttanza dipenda dal fenomeno delle scie colorate o dalla sua cessazione. C’è qualcos’altro che mi blocca, e riguarda il rapporto fra me e il giovane che ho davanti.

Non che non mi fidi, no, la fiducia che ripongo in lui è superiore a quella che nutro nei confronti di qualunque altra persona al mondo e non lo considero affatto troppo giovane per poter capire la condizione in cui mi trovo. Lo scoglio insuperabile non risiede nei suoi diciassette anni ma nei cinquanta che ci separano: un abisso temporale attraverso il quale io vedo lui mentre lui non può vedere me.

Io so tutto sul giovane con la Gazzetta dello Sport in mano, lui ha di me un’idea vaga. Fra noi un dialogo reale è impossibile, anche se siamo l’uno di fronte all’altro, qui nel retrobottega dell’Orologeria Poli in piazza Dalmazia a Firenze, quartiere di Rifredi. Io da stamattina a non fare un cazzo al banco di lavoro (perché a causa del tremore alle mani non sono più in grado di fare il lavoro che su questo banco ho fatto per tutta la vita), lui da cinquant’anni nella foto incorniciata appesa alla parete davanti a me. Una foto scattata nella tarda estate del 1967 all’ingresso di questo negozio, l’orologeria di mio zio Gino Poli, fratello maggiore di mia madre Clelia.

Quella mattina, appena uscito di casa, avevo comprato la Gazzetta dello Sport perché sono sempre stato un appassionato di ciclismo e volevo leggere del campionato mondiale che si era corso il giorno prima a Heerlen, nei Paesi Bassi, dove aveva vinto il belga Eddy Merckx con uno sprint esplosivo che gli aveva permesso di mettere la sua ruota davanti a quelle dell’olandese Jan Janssen e dello spagnolo Ramon Saez.

L’istantanea dell’arrivo sul traguardo di Heerlen è sulla prima pagina del giornale che ho in mano nella foto appesa al muro davanti a me. Era lunedì 4 settembre 1967, il mio primo giorno da apprendista orologiaio in questo negozio dove ho trascorso cinquant’anni e dove, pur essendo io morto da dieci anni, esattamente sei mesi e quindici giorni dopo che il professor Malaguti di Pisa mi aveva diagnosticato la malattia di Alzheimer in stadio avanzato, la mia anima a volte torna.

Tutto passa ma niente svanisce, quello che accade non smette mai di accadere, l’eternità è un infinito qui e ora. Io ho consumato tutto il tempo della mia vita ma la sola cosa che è svanita è il mio corpo materiale. Il tempo che ho vissuto continua a essere e in ogni suo singolo istante io non smetto di vivere. E così, quando me ne viene voglia, entro nella mia orologeria e vado nel retrobottega per incontrare il mio me diciassettenne che ha appena comprato la Gazzetta dello Sport.

Mi piace parlare con lui di orologi e ciclismo, le due grandi passioni della nostra vita. Appena lo avrò tranquillizzato sul fatto che ci tengo alla salute e seguirò alla lettera le prescrizioni del professor Malaguti, parleremo della possente volata che ieri pomeriggio ha fatto conquistare a Eddy Merckx la maglia iridata di campione del mondo sul traguardo olandese di Heerlen.

 

Post correlati