Parole brevi tra i tramonti autunnali
Articolo e foto di Martino Ciano
Cosa ne faremo delle parole incastrate nei discorsi quotidiani, tirate a lucido, usate per la banalità, per la gioia e per il dolore? Cosa ce ne facciamo di esse se tutto è inspiegabile e nulla consola lo smarrimento che avvertiamo?
Cosa ne faremo delle parole che rimpiangiamo di non aver detto al momento giusto? Dove le mettiamo quelle inespresse ma che ci tornano sulla lingua ogniqualvolta facciamo esperienza dell’immutabile?
Era una parola il nome dell’amante e sempre con una parola ho identificato l’assassino, il traditore, colui che porta fiori e colui che dispensa la malattia, la rovina. Nascosto dietro il muro di cinta del cimitero, acquattato come un animale pronto a saltare sulla preda, mi specchio nell’ombra del cipresso. Alle tre del pomeriggio, nel caldo bizzarro di un autunno quasi estivo, nel giorno in cui mi sento sospeso tra passato e futuro, percorro con la mente ogni “Addio”.
È la sciocchezza della morte prematura che bussa alla mia mente. Sono disturbanti le storie in cui il giovane abbandona la terra prima dell’anziano, in cui il bambino viene seppellito prima dei suoi genitori; ci fanno gridare all’ingiustizia, ci fanno pronunciare parole vaghe di consolazione, ci fanno proclamare la nostra impotenza e ci condannano alla speranza che ci sarà rivelato “il perché delle cose”.
“La natura è indifferente e imperturbabile; lei è perfetta così com’è”.
Non c’è possibilità di vittoria contro di lei: va lasciata in pace, non va stuzzicata.
Non parla la natura, non ha parole. Lei agisce senza dialogare; lei dona e toglie, non ha paura di essere giudicata. Ha già liquidato con feroce e inappellabile indifferenza ogni nostro discorso etico e morale. Né sacrifici né preghiere arrestano il suo percorso: lei obbedisce a sé stessa, lei ha coscienza solo di sé, lei lascia che ognuno faccia, che ognuno pensi di dominarla, lei sa quando manifestarsi.
A noi le parole, a lei l’agire.
A noi la speranza, a lei l’assoluta libertà di azione.