Il prodigio. Riflessioni e spiragli

Il prodigio. Riflessioni e spiragli

Recensione di Giusi D’Urso. Questo articolo è già stato pubblicato sul blog Lasecondapelle

Il prodigio, diretto da Sebastián Lelio

Siamo nel 1862. Lib Wright (Florence Pugh) è un’infermiera che ha fatto esperienza negli ospedali da campo della guerra in Crimea. La donna, che sta ancora elaborando il dolore per la perdita di un figlio, viene assunta da una particolare “commissione” in una piccola comunità irlandese, povera e chiusa al progresso, al fine di osservare un “prodigio”: Anna, una bambina di undici anni, ha smesso di mangiare da quattro mesi e nonostante il digiuno prolungato, è in buona salute, in quanto, tutti sostengono, tenuta in vita dal nutrimento divino. La speciale commissione composta dal prete, dal medico condotto e da alcuni rappresentanti della comunità, ingaggia l’infermiera e una suora come osservatrici che si daranno il cambio notte e giorno al fine di scoprire se dietro il prodigio ci sia un’altra spiegazione. Anna viene considerata dalla comunità e dalla famiglia una santa, la prima santa del paese. Lib, in un primo momento è sorpresa e sconvolta dalla buona salute della bambina, dopo qualche tempo si rende conto che dietro l’apparente miracolo c’è un comportamento materno e familiare disfunzionale. La bambina, infatti, viene nutrita in realtà attraverso i baci della madre che, nel gesto affettuoso, la imbocca con il cibo masticato che tutti in casa chiamano “manna di Dio”.

Letture

Dopo qualche giorno dalla visione del film, in modo pressoché automatico, ho ripreso un saggio che negli anni di formazione mi ha illuminato la strada e a cui sono ritornata spesso per cercare nuovi significati, nuove illuminazioni. Si tratta di un saggio di Rudolph Bell, La santa anoressia, digiuno e misticismo dal medioevo a oggi. I temi del saggio sono vicini a quelli del film e le analogie fra il percorso di santità di alcune sante ascetiche del passato e le manifestazioni dell’anoressia nervosa di Anna, sorprendenti.

Oltre al saggio di Bell ha ritrovato posto sulla scrivania un saggio più recente, anche questo consultato e riletto molte volte ma che mi riserva continue rivelazioni: parlo di Ferite e ricami nella clinica dei disturbi alimentari, l’arte del Kintsugi, curato da Elena Riva, che fornisce interessanti chiavi di lettura dei disturbi restrittivi. Nella mia mente, come spesso accade, si sono riaperti dei cerchi che avevo provvisoriamente chiuso, spiragli che mi hanno portato a rileggere questi due testi e ad annotare nuove impressioni, spiragli direi, nate dalla visione del film.

Spiragli

Benvenuta Bojani (Cividale del Friuli, 1255) era la più piccola di sette sorelle, vezzeggiata dai suoi genitori che non scoraggiarono la sua precoce propensione alla vita ascetica. La incoraggiò soprattutto il padre spingendola a entrare fra le terziarie domenicane, note per il rigore religioso e la consuetudine alle mortificazioni corporali. Benvenuta trascorse cinque anni, dai sette ai dodici, immersa per molte ore ogni giorno nelle preghiere che recitava nel giardino di casa: 1700 avemarie e 700 paternostri ogni giorno.

Dopo anni di mortificazioni corporali, a ventuno anni si ammalò gravemente: il suo fisico era così debole da non riuscire a stare in piedi senza l’aiuto degli altri. Praticava il digiuno e, se veniva forzata a mangiare, rimetteva ogni cosa entro poco tempo. “L’unico nutrimento le veniva da un angelo che ogni giorno a mezzogiorno le portava un cibo celestiale in un piccolo vaso scintillante e la cibava con le sue dita” (cit. La santa anoressia). Morto il padre, il suo angelo del nutrimento, Benvenuta guarì completamente.

La storia della piccola Anna ricorda molto quella di Benvenuta Bojani. Anche ne Il prodigio c’è un nutrimento divino, la manna di Dio, grazie al quale la bambina sopravvive. In questo caso il cibo, proprio come avviene per il latte materno, attraverso il corpo della nutrice passa alla bambina in una forma predigerita e non visibile agli altri. E’ il miracolo ancestrale: il corpo della madre è un tabernacolo, unica fonte di vita e salute della figlia nel gesto intimissimo e segreto dell’atto di nutrire per tenere in vita, simile a quello intrauterino.

In entrambi i casi, per Benvenuta e per Anna, interviene una dinamica che emerge molto spesso nei casi di anoressia, ovvero il tentativo della figlia di “sanare” una ferita di un genitore o di entrambi, di ovviare cioè a una dolorosa delusione, una ferita, un trauma, un rimpianto. La figlia perfetta mette a posto le cose, compensa i disequilibri, ovvia alle umane imperfezioni e agli umani inciampi attraverso l’ascesi, la santità, il controllo e la mortificazione del corpo. Chi, meglio di un figlio (una figlia), un essere puro, innocente e vicinissimo a Dio, può intercedere per i peccati dei genitori?

Il confronto fra le due ascetiche innesca ulteriori riflessioni sulle relazioni padre-figlia e madre-figlia. Sappiamo che nelle famiglie edipiche tradizionali, mentre al figlio maschio spettava il compito di garantire il benessere economico e il prestigio sociale, la femmina era relegata in aree di minore rilievo. Tuttavia, qualora la figura maschile fosse risultata inadempiente, alla femmina, al corpo della femmina, venivano affidate aspirazioni e ruoli che incarnavano aspettative insostenibili. In questo processo di affidamento il cibo e il corpo diventavano la stessa cosa (il corpo, in particolare, si faceva ponte fra l’esterno e l’interno, fra avvenimenti e sentimenti) e si riempivano di significati profondamente simbolici: una dinamica che oggi sappiamo possibile in ogni periodo storico, con caratteristiche peculiari di ogni epoca. Elena Riva sottolinea tale fenomeno in una nota del saggio precedentemente citato: nelle biografie di Emili Bronte, Emily Dickinson, Simone Weil e Sylvia Plath il fratello risulta investito di aspettative di successo sociale e professionale, mentre la figlia femmina è relegata a ruoli reputati minori, come l’accudimento, la sorveglianza sui figli, l’organizzazione dei banchetti; il suo corpo protetto, fasciato da busti e corpetti.

“Emily Dickinson, costretta dal padre a ritirarsi dagli studi ‘per motivi di salute’, dalla stanza in cui si rifugia a scrivere fino alla morte, scrive: ‘a me chiedevi torte, a lui pagine scritte’ ” (cit. Ferite e ricami nella clinica dei disturbi alimentari, nota 10, pag. 247).

Nel caso di Benvenuta è il rapporto con il padre il fulcro della “santa anoressia”: la ragazza è la più piccola di sette sorelle; il figlio maschio non c’è, ma Benvenuta riempie il vuoto, si fa asceta, produce miracoli, mette in atto prodigi di cui il padre (la madre muore presto) può andare fiero. Nel caso di Anna il fratello commette un grave peccato, l’incesto, ferendo la famiglia nel tessuto più intimo e creando una voragine in cui la bambina prende posto, si sacrifica e viene sacrificata per salvare la famiglia dal baratro del peccato inconfessabile perpetrato dal figlio maschio. In questa storia vi è un fattore addizionale che forse la rende più incisiva e morbosa: il ruolo della madre e del suo bacio-nutrimento. Il corpo di Anna, a differenza di quello di Benvenuta, non è emaciato, non mostra segni di deperimento fino al momento in cui l’infermiera decide di isolarla dalla famiglia, non permettendone più il contatto fisico. La madre-uccello viene allontanata suo malgrado dal nido, la manna di Dio non passa più dal corpo materno a quello della bambina e nessuno, né la madre né gli altri componenti del nucleo familiari, sono pronti a confessare il segreto: condannano Anna alla morte per inedia. La stessa bambina sostiene la sua condanna, ormai cristallizzata nel ruolo che la famiglia le ha attribuito dopo l’incesto.

Immagini e immaginazioni

Il prodigio offre anche l’occasione di riflettere sulle immagini e le impressioni che ne derivano. Il registra ci mostra un paesaggio cupo, con colori scuri che vanno dal marrone al grigio al nero, fra i quali spiccano l’azzurro con cui invece si veste l’infermiera Lib Wright e il beige degli abiti di Anna. Il contrasto evoca quello fra la scienza e l’oscurantismo religioso, la cultura e l’ignoranza che rende ottusi e diffidenti. Un contrasto senza tempo, se ci pensiamo, ma che trova nelle immagini di questo film una chiave di lettura universale.

C’è anche qualcosa di profondamente dissonante fra l’ascesi della bambina e gli elementi materici come la pioggia, il fango, la densità di una minestra, il legno di cui è fatta la mansarda che ospita Anna e l’infermiera. L’agonia di Anna, con il sudore della febbre, il collasso del corpo, l’ottundimento dei sensi fa da contraltare alle preghiere, la volontà di dissolversi, farsi spirito, volatilizzarsi nella nebbia.

Fisico e umano è anche il dolore di Lib che, mentre si sforza di comprendere con le sue competenze ciò che accade alla ragazza, fa i conti con il suo lutto, con la condizione di madre orfana di suo figlio e con il limite fisico di tolleranza del dolore forse più insopportabile: Lib riesce a sopravvivere alla propria sofferenza attraverso momenti di totale estraniamento, forse con l’aiuto di un farmaco o una droga che si autosomministra pungendosi un polpastrello per poi perdere temporaneamente i sensi. Il corpo, di nuovo, è il ponte fra avvenimenti e sentimenti.

Infine (ma la parola fine riguardo a questo film e a ciò che evoca sembra davvero inappropriata), c’è il fuoco a simulare la morte della bambina e a sancire la fine di ogni possibile progetto di redenzione e santificazione. E cosa fa il fuoco da sempre? Incenerisce e fertilizza, dissolve e trasforma. Nell’incendio della casa si verifica la trasmutazione, un rituale di iniziazione: del peccato in salvezza, della morte in rinascita, dalla malattia alla salute, dal sacrificio estremo al diritto alla vita e alla felicità.

Anna, tratta in salvo dall’infermiera, compie un secondo (vero) prodigio: ricomincia ad alimentarsi e a vivere. Le ultime scene del film ce la restituiscono infatti in un mondo colorato, bambina tenuta per mano dagli adulti, figlia salvata e accudita, umana fra gli umani.

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