Ritorni e scatti. Seconda parte
Racconto di Francesco Di Giorno
Capitava che durante la settimana andasse a trovare la sua ragazza che ci abitava molto vicino. Ci arrivava a piedi. Alle 19:30 staccava gli occhi dai libri cercando di stirarsi e addirizzare quella sua gobba che ormai si era calcificata. Un passaggio fugace in bagno e via, brufoli e camicia, dalla ragazza. Immancabilmente, tutte le volte che passava a trovarla, alle 23:30 si sentiva già armeggiare alla serratura della porta. Non so cosa mangiasse da lei durante la settimana, ma so cosa mangiava la domenica. Finalmente la pasta al sugo con i funghi, sempre! Ogni domenica! “cosa hai mangiato oggi Gioacchino? Cosa ti ha preparato di bello la tua ragazza?”
Quasi avvertendo la presa in giro rispondeva laconico: “pasta al sugo con i funghi”.
Ah il mio dottore in scienze politiche! Chissà che farà dopo che prenderà la sudata laurea! Diventerà sicuramente qualcuno, ha lavorato tanto e si merita tanto dalla vita. Ha costruito pezzo per pezzo la sua vita per salire in alto. Giacca, cravatta, capello corto. Sì
perché alla fine quella zazzera biondo sporco-grasso l’ha tagliata e ne è uscito fuori un bel faccione, tondo e paffuto, di quelli che trovi sorridenti o attenti sui manifesti pubblicitari dei nostri politici mangioni. Chissà forse un giorno mentre penserò alla mia vita sprecata alla ricerca del senso ultimo dell’esistenza, me lo ritroverò appiccicato lì che mi sorride. Bonario e amichevole come non lo è stato mai. Mi tenderà la mano dall’alto della sua posizione acquisita.
Lo immagino vestito di nero, come un becchino, non come i Blues Brothers, anche se aveva degli occhiali simili ai loro. E c’è un motivo perché lo immagino così. Per il suo modo di dormire. Si stendeva tutto diritto nel letto, anche la testa. Metteva le mani conserte, come per pregare, e dopo un po’ moriva, per poi rinascere la mattina, lo stesso di prima, senza cambiamenti evidenti acquisiti durante il sonno. “È una posizione comoda per dormire” diceva. A noi di casa faceva un po’ senso però vederlo così disteso come un morto. Però parlava, mangiava, camminava, a volte rideva pure. Si poteva dire vivo per quello che significa questa parola. La sua vita, almeno per quel periodo, era un continuo ritorno delle stesse cose di sempre. La mia credevo variasse, ma devo ammettere a distanza di tempo che ripeto le stesse cose anche io. Gli stessi sbagli e gli stessi errori, le stesse risate e le stesse malinconie. Almeno Gioacchino non ha mai provato a cambiare, non ha subito il fallimento di questa prova. Avrei dovuto seguire il suo esempio di vita. Per lo meno sarei stato assurdo, senza cercare di capire questa assurdità. Invece mi ritrovo a barcamenarmi ancora per cercare un senso, del perché le lenticchie e i fagioli con il riso, del perché costringersi a casa quando tutta la persona lo rifiuta. Il senso del dovere, la colpa, i rimorsi per non averli bisogna essere come Gioacchino. Ancora non l’ho visto appeso da qualche parte, e credo che non lo vedrò appeso e penzolare da nulla. Per compiere questo gesto serve aver vissuto. Serve aver provato forti dispiaceri, forti emozioni, serve volontà, rischio, cuore. Gioacchino viveva inserito in mezzo ad assi cartesiani, difficile che si sia perso. E chissà che chi segue la ragione non si perda! Chi insegue le leggi del Sistema chissà se sarà soddisfatto della sua sistemazione nel mondo. Ci vuole distacco e zero partecipazione. Però ci sorridono dai manifesti e ci tendono la mano. Non sanno neanche loro quello che stanno facendo. Lo fanno perché devono, perché glielo hanno detto e imposto. Così a scatti ripetuti,
ritornano sempre sui loro passi. Se escono fuori dal mondo che gli assi cartesiani hanno tracciato per loro è la fine. Io ne so qualcosa.