La signora Harris va a Parigi

Articolo di Antonio Maria Porretti
Quando l’air du temps spira con troppa insistenza in direzione di enigmi, allarmi, rompicapi sui giorni a venire, niente di meglio allora che offrirsi il ristoro di una coccola cinematografica. Tipo una commedia dal bouquet secco e vellutato di uno champagne grande cuvée; con un titolo che è già promessa di briosità esilaranti: “La signora Harris va a Parigi”, appunto.
Una commedia dai toni fiabeschi, che cela molto di più di quanto non lasci pensare. Va detto – e rimarcato – che le commedie anglosassoni hanno l’incomparabile pregio di offrire dialoghi sempre arguti, di ritrarre personaggi credibili anche nelle situazioni più surreali, senza mai ridurli a macchiette e maschere di una comicità greve, che infarciscono invece tante pellicole analoghe di casa nostra. Del resto loro, gli inglesi, hanno pur sempre Shakespeare come loro somma divinità drammaturgica… vorrà dire qualcosa. Ma questo è un discorso che indurrebbe a troppe divagazioni nelle quali non intendo inoltrarmi oltre.
Chi è dunque questa Signora Harris?
Non è famosa, né ricca, né bella; ha oltrepassato da un bel po’ la stagione della propria giovinezza; è una vedova di guerra e per arrivare alla fine del mese lavora come domestica a ore nelle case di famiglie facoltose. Il tutto, in una Londra nell’immediato secondo dopoguerra, con molte ferite ancora aperte. Ma è proprio hic et nunc che avviene l’incontro fatale. Poiché – come ho detto – ci aggiorniamo nei territori delle fiabe, verrebbe subito da pensare a qualche principe azzurro, sia pure sotto mentite spoglie. Nossignore. Perché la signora Harris crede ai sogni non alle favole. Crede nella tenacia e nella forza per realizzarli, sbaragliando ogni ostacolo. Il che non è poco: una bella iniezione di fiducia per chiunque le stia intorno; e anche per gli spettatori. E nel suo caso a cambiarle la vita, o meglio, a mutarne la percezione, è un abito. Un modello di Haute Couture su cui s’imbatte in una delle sontuose dimore dove lavora. Una creazione esclusiva uscita dall’atelier di Dior, vale a dire il più celebre e celebrato sarto di quegli anni (stilista non usava all’epoca). Da quel momento decide e determina che anche lei dovrà averne uno. E non si fermerà davanti a nulla: andare a cinema per credere.
Ora, detta così in malo modo, potrebbe far pensare a una commediola inneggiante allo shopping più sfrenato e scriteriato. Ma non è così. La valenza simbolica di quell’abito è ben più alta; è il riconoscimento di un diritto a una dignità maggiore del proprio io: concedersi pure una stravaganza affinché la propria vita possa guadagnarne in termini di autostima e consapevolezza del proprio valore. Lo so, sono parole che suonano come ritornelli inflazionati all’ascolto, però è così. Se non siamo noi, per primi in noi, nessuno lo farà al posto nostro. Quell’abito è un mezzo, non un fine. È il modo in cui la signora Harris riconosce e si specchia nella sua esclusività. E qualche lacrimuccia, questo incontro con la parte più bella di se stessa, ne suscita. D’accordo io non faccio testo, avendo la commozione sempre in tasca cinematograficamente parlando, ma da sempre le fiabe servono a farci riflettere su chi siamo e cosa vogliamo davvero dalla vita.
Cosa siamo disposti a fare realmente per ottenerlo, quante prove siamo disposti ad affrontare?
C’è molta più sostanza che apparenza in questa pellicola di Anthony Fabian: un mix ben calibrato fra Cenerentola e Mary Poppins, con un parterre di attori molto, molto, molto blasés. A cominciare da Lesley Manville che dà anima, corpo e voce a una Ada Harris che tutti vorremmo incontrare almeno una volta. Comprimari di extra lusso sono Isabelle Huppert negli impeccabili e algidi panni di direttrice della Maison Dior , Lambert Wilson, Alba Baptista, Lucas Bravo, Ellen Thomas e Jason Isaacs. Tutti coinvolti a vario titolo nella conquista di un abito prezioso non per il valore di mercato, ma perché veste di un’anima.
Ultima notazione per gli eventuali spettatori appassionati di moda. Poiché ce n’è tanta, non abbiate fretta di uscire dalla sala quando partiranno i titoli di coda.
Vi perdereste la chicca di veder apparire sullo sfondo nero dei figurini di Dior tracciati con matita bianca.

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