Ricordi di suoni e di luci di Renato Martinoni

Ricordi di suoni e di luci di Renato Martinoni

Recensione di Alessio Barettini. “Ricordi di suoni e di luci” di Renato Martinoni, Manni edizioni

Dino Campana, il poeta folle, visionario, dimenticato e straordinario della letteratura italiana, è il protagonista di questo romanzo che intende sistematizzare, ordinare il caos della sua memoria raccontando il caos della sua mente. Restituire giustizia, insomma, riportare sotto le luci, Dino Campana dalla vita complessa, ingannato, odiato, incompreso e segregato. Tutto avviene in modo didascalico, dichiarato, in controtendenza con la sua poesia centrifuga, che sfugge a ogni incasellamento.

Il personaggio di questa triste storia vive nel tempo, come fanno quasi tutti, e al di là del tempo, come succede ai poeti. Qualcuno pensa che è fuori di testa e forse ha ragione. È un uomo intelligente e sa di esserlo. Molto ha letto e molto ha viaggiato. I baffi e i capelli crescono incolti: simili a quelli dei barbari. La fronte è alta, i capelli castani, il naso breve e largo, i denti forti e sani. (…) Lo sguardo è assente e malinconico, a volte perso, rivolto chissà dove, verso qualcosa che deve essere vicino, molto vicino, oppure lontano, molto lontano: forse verso il nulla, indice di una cattiva salute mentale.

Così seguiamo Dino Campana lungo i suoi viaggi, capitolo dopo capitolo, ognuno dei quali inizia con due aggettivi che esprimono il pensiero del poeta su quel luogo. Siamo tra il 1915 e il 1918, la guerra è onnipresente come nemica della poesia, come nemica di Campana, che in guerra non ci va, e tutti lo sanno, a Marradi, che è strambo. La narrazione oscilla a lungo fra un Campana in società, ritratto negli anni della guerra a urlare “W il Kaiser” e irriso dai suoi contemporanei, e la sua interiorità di poeta, che quasi nessuno sa vedere, condannandolo così a un progressivo deterioramento della sua situazione.

Le sue parole sulla poesia, in controluce, mostrano un’idea, una normalità, creano forte contrasto con chi non sa vedere, la miope società del tempo, inadatta alla voce di poeti oltraggiosi, folle senza saperlo. La prima parte del libro ci presenta un poeta alla deriva, preda della Fata Verde, l’assenzio, dell’odio per il mondo e amato solo da qualche donna che lo avvicina colpita dalle sue stranezze o dalla sua poesia, che sono in fondo la stessa cosa.

Nella seconda e nella terza parte di “Ricordi di suoni e di luci”, chiamate La fata bianca e La fata rossa, siamo fra l’Emilia Romagna e la Toscana, cioè nelle zone di nascita del poeta, e il Piemonte Lo troviamo nella medesima condizione, le parole del narratore sono chiare e inequivocabili, quando entrano a farci vedere quello che vuole:

Quando è sobrio, il nostro personaggio è mite e riservato. O, per meglio dire, lo è stato fin verso i diciott’anni. Poi, pur restando timido e diffidente, si è fatto ombroso e pronto agli scoppi d’ira. Specie se qualcuno lo provoca o se ha bevuto troppo, come succede quasi sempre.

Gli anni precedenti, quelli del viaggio in Sudamerica, quelli dei Canti orfici, sono solamente ricordati, per contrasto, con questi anni di asocialità, di rabbia, di alcoolismo e follia crescente. Qui i pochi rapporti umani sono ancora costellati di incontri con donne che lo hanno amato o che hanno provato ad amarlo, e compare la figura della madre, che se ad amarlo ci ha provato, non ci è mai particolarmente riuscita. Sono pagine in cui si consolida l’immagine della sofferenza e della solitudine, nonostante la storia d’amore con Samia potrebbe avergli fatto presagire un esito felice.

La sofferenza trova il suo spazio per attecchire nella vena poetica ormai prosciugata da un tempo bastardo e dalla considerazione invidiosa del mondo letterario, il cui celebre episodio dello smarrimento, o meglio del furto, del suo manoscritto, viene citato più volte ma sempre in filigrana, mai raccontato esplicitamente, più spesso riportato alla luce dalla voce di Campana, che sulla società letteraria ha deciso di metterci una pietra sopra, rimanendo sfortunatamente distante per sempre dalla sua stessa idea di poesia, fino a dimenticarsene del tutto.

La poesia è perduta per sempre. L’ha voluta, con tanta fatica. L’ha trovata. O forse, crede ora, si è solo illuso di averla incontrata. Poi non è più riuscito a vederla. Anche se l’ha cercata con tutte le forze. Mettendoci la sua vita. Nei vicoli dei porti. Sulle acque del mare. In mezzo ai fuochi magici delle lucciole e quelli fatui dei cimiteri. Sui campi. Nei boschi. Tra le rocce.

Questo accade, in Ricordi di suoni e di luci, nell’ultima parte, che descrive la vita di Dino Campana chiuso nel manicomio di San Salvi. Qui Campana ci entra con rabbia, non senza scalciare, fino a ridiventare feto, bozzolo, innocuo a tutto e a sé stesso, sempre più rassegnato a morire, in solitudine, nella calma di una voce interiore che finisce per accoglierlo e lasciargli vivere gli ultimi anni lontano dagli eccessi precedenti. Gli ultimi anni volano via in poche pagine, i tentativi rozzi degli psichiatri sullo sfondo non possono arrestare il processo di deterioramento che scorre velocissimo a mostrare che altre vie non sarebbero, nel suo caso, state possibili.

«L’amore è pura follia», replica brusco l’ospite, mentre fissa la luna che sale sopra i poggi circondata da fumi color zolfo: «Così come la guerra è follia». E dopo un breve silenzio aggiunge: «L’amore è come la guerra».

 

 

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