Il respiro della Tonnara

“Il respiro della Tonnara” è un racconto di Giuseppe Libertino. In copertina una foto, a uso gratuito, di Emiliano Arano, tratta da Pexels
In memoria di Giannino Losardo – (Cetraro, 23 luglio 1926 – Paola, 22 giugno 1980)
L’odore era la prima sentinella.
Il metallo arrugginito delle catene abbandonate, il sentore acre del sale che ancora impregnava le pareti della vecchia tonnara di Marcedusa.
Quel posto parlava la lingua del mare.
Fatica abbandonata.
Si infilava fino ad arrivare sotto la pelle, scavando ricordi come tarme nel legno.
Era il suo mondo. Mimmo Bellocchio sentiva quel respiro da quando suo padre lo cullava tra le reti. Era il tanfo della sua condanna. Il suo peccato originale.
Le mani come pale di cemento. Consumate dall’artrite. Battevano un ritmo stonato sulla chiglia di un gozzo. Un rumore sordo. Inesorabile. Tirava quei colpi senza rendersene più conto. Sempre dispari. Stoppa e panni di cotone imbevuti con la pece, martellati per cercare di sigillare le fessure nello scafo.
Un boato secco fece vibrare il pavimento.
Una parte del muro esterno crollò all’improvviso portandosi dietro anche i pilastrini che tenevano la cisterna grande. Il pulviscolo, ancora sospeso, tremolava illuminato dai raggi che filtravano timidi all’interno.
Frammenti di calce e malta si riversarono nella vasca dove un tempo agonizzavano i tonni. Rimaneva il rosso sbiadito. Incrostato nel cemento.
Si avvicinò incredulo, per rendersi conto.
Tra le macerie, un blocco. Una forma squadrata avvolta in un telo di cellofan. Era ricoperto da fanghiglia e detriti.
Non riusciva a capire cosa fosse. Mimmo strappò il telo.
Un gesto lento.
Ne tirò fuori un oggetto squadrato, pesante. La carcassa di celluloide. Marroncina. Coperto di polvere. Pulì il vetro. Un contatore numerato. Grandi manopole metalliche. Bobine di plastica nera spuntavano dai perni, ancora montate.
«Nu’ registratore a bobina?», mormorò. Era un vecchio Nagra, di quelli che si portavano a tracolla.
Realizzò. Lo stupore fu improvviso.
«Ma, ma… chistu è di Tonino», sibilò grattandosi la cicatrice che gli solcava l’avambraccio. Sembrava avesse un verme sotto pelle. Gliela aveva lasciata una cima che si spezzò mentre pescava, da bambino, insieme a suo padre. Non era solo un’incisione sulla pelle, gli era rimasta dentro, nell’anima.
La memoria lo colpì. Forte. Era stato come scoperchiare una tomba. Tonino. Il fratello maggiore. Quel testardo che si ostinava a sognare. Troppo avanti in quel mondo fatto di sudore e intrallazzi. Il sindacalista che nel ’78 era sparito nel nulla, subito dopo un comizio infuocato contro la ‘Tirrenica Trasporti’ e i suoi veleni scaricati nella terra e nel mare.
Fu ritrovato giorni dopo, in un fosso ai margini della Statale 18, con il cranio sfondato.
I colpevoli, mai trovati.
Un vecchio dolore mai superato, fuso con le ossa.
Portò quell’apparecchio a casa, stringendolo al petto. Era più pesante d’un sacco di cemento.
Lo sistemò sul tavolo della cucina. Guardandolo a lungo. Forse conteneva la voce di Tonino, le sue parole, le speranze che promettevano rivoluzioni. E la gente che annuiva con la testa e poi tornava mestamente a cucinare.
Le bobine erano un groviglio di terra e di fango, il meccanismo arrugginito. Bloccato. Mimmo provò a girare una manopola. Niente. Non riuscì a farlo partire, non funzionava.
Non sapeva a quale santo votarsi.
Chi avrebbe potuto mettere mano su quel rottame per ridargli voce?
Gli arrivò un lampo. Si ricordò di Aurora. Aurora Morabito, la figlia del radiotecnico che un tempo riparava di tutto. Da piccola smontava le radio invece di giocare a campana. Se ne era andata al nord. A studiare. E poi era tornata e aveva aperto un piccolo laboratorio giù in paese, alla Marina.
Era l’ultima speranza.
L’indomani, Mimmo si presentò al laboratorio di Aurora.
Il registratore avvolto in un telo pulito. Portato come un’offerta votiva.
La ragazza, capelli corti color ruggine, lo guardò con curiosità.
Lui balbettò qualcosa per spiegarle. «È… è di me frate, Tonino. È sparito tanti anni fa. L’ho trovato per caso … alla tonnara. C’erano pure ‘i bobine…»
Aurora non chiese altro. Conosceva bene quel nome.
Tonino Bellocchio, l’uomo che, in quella terra, aveva consacrato la propria esistenza alla difesa della giustizia, all’affermazione dell’uguaglianza. Negli anni era diventato, agli occhi delle nuove generazioni, una icona di impegno civile, una figura di riferimento nella resistenza alla ‘ndrangheta. Un’eredità ancora viva. Quell’omicidio di mafia, compiuto per imporre il silenzio, sconvolse l’opinione pubblica. Le indagini portarono all’accusa del boss della zona come mandante, ma il processo si concluse con un’assoluzione per insufficienza di prove. Uno dei tanti misteri irrisolti. Che poi, tanto mistero non era. Anzi. Una macchia, enorme, sulla coscienza di molti. Un delitto senza colpevoli.
Prese l’apparecchio con delicatezza, lo esaminò. «È messo male, Mimmo. Male, male. Il sale e l’umidità hanno fatto tanti danni. Le bobine…». Scosse la testa osservando le spire del nastro, «…sembrano fuse. Potrebbero essere irrecuperabili. Ci provo. Ma ci vuole tempo e pazienza per cavarne qualcosa…e non è detto…».
Mimmo annuì con un cenno del capo. «Va buonu… per piacere… è tuttu chiru ca’ mi resta».
I giorni a seguire furono un tormento.
Cercò di distrarsi. Mimmo lavorava sul gozzo, ma le martellate non riuscivano a coprire il frastuono delle domande che mulinavano nella sua testa.
Che c’era in quelle bobine?
Chi aveva messo il registratore nella cisterna della tonnara?
E perché?
Un paio di giorni dopo, mentre tornava dal porto, Mimmo incrociò lo zio.
Zu’ Peppino lo aspettò appoggiato al suo bastone. Il volto incavato da rughe profonde come solchi d’aratro. Gli occhi un tempo vivaci erano opachi, velati dal vino e dalle cataratte. Un’ottantina d’anni portati con una stanchezza che sembrava pesare più di quella stessa età.
«O’ Mimmo», gracchiò, con voce roca. «Chi fai? C’hai trovato na’ roba vecchia? Nu’ registratore…»
Mimmo si fermò, sorpreso. «E tu chi ni sai…?»
«U’ paisi è piccolo. Si sa tutto. Soprattutto quando si tratta di cose vecchie… ». Peppino si schiarì la gola, un suono strozzato. «Lassa perdere. Porta sulu duluri. Tonino è morto. Lassalo in pace».
Avvertì strana un’insistenza nelle parole dello zio. Ansiosa. Mimmo lo guardò negli occhi spenti. «È l’unica cosa ca’ mi rimane. ‘A voci sua».
Peppino scosse la testa. «E che te ne fai? Ancora duluri, non serve a niente! Jettalo, Mimmo. Jettalo a mare». La sua mano tremante si alzò, come per afferrare il braccio di Mimmo, ma poi ricadde. Si voltò e si allontanò barcollando. Il bastone batteva sul marciapiedi di pietra con un ritmo incerto.
Quell’incontro lasciò Mimmo turbato.
La reazione era stata strana. Non se la spiegava.
Lo zio era un uomo semplice, dedito al vino e al gioco, sempre con qualche debito. Tonino, l’intellettuale, il combattente, lo guardava sempre con una certa triste accondiscendenza.
Era come se quel registratore avesse innescato una mina.
La chiamata di Aurora arrivò più tardi.
La sua voce era tesa. «Mimmo, vieni. Passa dal laboratorio. Ho… ho fatto qualcosa. Ma non basta. Passa».
Si precipitò tagliando per la stradina sterrata dietro la ferrovia. Le ciabatte di gomma strusciavano la polvere a ogni passo.
«Eccomi, ho fatto più in fretta che potessi».
Aurora lo stava aspettando. «Le bobine…mi dispiace, sono troppo danneggiate, il suono… è distorto. Non riesco a ricostruire niente di comprensibile. Ho bisogno di attrezzature che non ho».
«Sentiamo», disse Mimmo.
Aurora azionò il registratore. Fruscìo e rumori indecifrabili. Poche sillabe masticate. Interrotte.
Bastarono.
Riconobbe la voce di Tonino. Gli arrivò come una coltellata in petto.
«Quindi è tutto perso?», chiese.
«No, no!…forse c’è una soluzione», esclamò Aurora. «Conosco una ditta a Milano, specializzata in restauro di nastri magnetici, all’archivio sonoro. Specialisti. Forse c’è una possibilità. Ma…» Esitò. «Devo portargli le bobine…e costa. Non poco…»
Mimmo non ci pensò due volte. «Non ti preoccupare dei soldi. Porta tutto a Milano. Ti prego. Fai quello che devi fare».
Aurora partì. Quel viaggio fu un supplizio per Mimmo. Dieci giorni. Sembrava fosse passato un secolo.
Se la ritrovò davanti alla porta, di sera. Senza nessun preavviso. In mano aveva una borsa protettiva e un’espressione che non seppe decifrare: era turbata. Profondamente.
Entrò senza dire una parola, posò la borsa sul tavolo e tirò fuori le bobine. Pulite, montate su nuovi supporti.
«Le hanno rimesse a posto», disse, la voce un po’ tremula. «Hanno salvato quello che si poteva salvare. Ma Mimmo…» Lo guardò dritto negli occhi. «Su queste bobine… non c’è solo il discorso. Non è solo il comizio…»
Mimmo sentì il sangue gelarsi. «E chi…c’è?». La voce strozzata.
«Una registrazione…fatta per caso, credo. Il registratore è rimasto acceso. Ha registrato quello che è successo dopo».
Un silenzio di tomba scese sulla cucina.
Mimmo non respirava più.
Strinse i pugni.
Aurora accese il registratore, collegò le cuffie. «Ascolta. Ascolta tutto…».
Mimmo prese le cuffie. Aveva le mani tremanti.
Aurora schiacciò il play.
All’inizio, solo un fruscìo. Denso. Il crepitio del nastro restaurato.
Poi, passi.
Più persone.
Veloci, pesanti.
Una porta che sbatte.
La voce di Tonino. Improvvisamente vicina, carica di rabbia. Incredulo: «Zu’ Peppino? Tu? Ma che cavolo…? E loro? Che ci fai qui con questi…?»
Era la sua voce, quella che Mimmo ricordava perfettamente. Strozzata dallo stupore e dalla paura.
Subito dopo un’altra voce. Più vecchia, roca, disperata: «Toni’… perdonami… m’hanno costretto… i debiti… quel vizio maledetto… non potevo più pagare…». La voce era inconfondibile, anche se deformata dai singhiozzi.
Dopo, un’altra voce ancora. Gutturale, tagliente, interruppe: «Basta chiacchiere. Hai fatto la tua parte. Mo’ levati da mezzo…dacci i documenti…quelli che hai minacciato di portare alla magistratura. Subito».
Tonino rispose, la voce improvvisamente ferma: «Non ve li darò mai. Ammazzatemi, tanto qualcuno prima o poi li troverà. Per voi è finita lo stesso!»
Un ringhio. Il rumore di una lotta improvvisa, confusa. Rumori di oggetti che cadono a terra.
Tonino che grida: «No! Lasciatelo stare!».
E poi la voce di Peppino. Urlante. Straziata: «No! Lui no! Pigliati a mia! Lassatilu stari! Non c’entra! Acciditi a mia, vi prego!».
Un tonfo sordo.
Un gemito.
Poi, il suono più orribile.
Un singolo colpo. Secco. Definitivo.
Un urlo soffocato. Un attimo.
Il rumore di un peso che rotola a terra.
Silenzio.
Solo qualche respiro. Ansimante. Degli altri.
La voce gutturale, ora era più calma. Sinistra: «Stupido. Putìa campare ancora. Portati fuori ’u vecchiu. È solo svenutu. Ricurdatinillu ca’ si fa ‘na parola, finisci male…»
Un’altra voce, più giovane: «E quel registratore…? Meglio portarlo via».
«No», tagliò secco il primo. «Troppo rischioso portarlo in giro. Poi ‘u pigliamo».
Altri passi. Una porta che si apre e si chiude subito dopo.
Un lungo fruscio. Interminabile.
E, alla fine, un altro rumore, leggero. Furtivo.
Qualcuno che entra. Un respiro affannato.
Un mormorio: «Madonna Santa…».
Il rumore del registratore che viene preso, avvolto in qualcosa. Passi. Si allontanano.
Niente più. Il nastro si interruppe.
Mimmo si strappò le cuffie come se scottassero.
Era bianco. Cadaverico. Gli occhi sbarrati, fissi nel vuoto.
Un tremito incontrollabile lo percorreva.
Aveva appena ascoltato suo fratello morire.
Aveva sentito il colpo che gli aveva spezzato la vita. E aveva sentito la voce di suo zio, traditore per debiti di gioco. E quella degli assassini.
Le lacrime che scendevano giù lungo il viso di Aurora. Mute. «Mimmo…».
Lui non rispose.
Strinse gli occhi.
Si alzò, barcollando, e uscì nella notte.
Camminò per ore. Senza meta lungo la scogliera. Il rumore del mare e la rabbia. Tanta. Accecante.
Voleva distruggere, urlare, trovare quelli che avevano ucciso suo fratello.
Farli a pezzi.
Voleva affrontare Peppino. Sputargli in faccia, chiedergli come aveva potuto.
Ma nel caos della sua mente, gli si impose un’immagine. Peppino che urlava “Prendete me! Ammazzate me!”.
La disperazione assoluta in quella voce.
Un tentativo estremo. Inutile. Di salvare Tonino.
Non era solo un traditore.
Il giorno dopo Mimmo era davanti alla porta di Zu’ Peppino. Bussò con forza. L’anziano aprì lentamente. Sembrava essere invecchiato di dieci anni in una notte. Aveva gli occhi gonfi, rossi.
Sapeva.
Sapeva che Mimmo sapeva.
Non disse nulla.
Abbassò la testa remissivo e si scansò per farlo entrare.
La casa era buia, trasandata, impregnata di vino e disperazione.
Mimmo non si sedette. Stava in piedi, tremante, di fronte allo zio che si era appoggiato al tavolo con la testa china.
«Picchì?», riuscì a dire Mimmo. La voce gli uscì come un graffio.
Peppino non alzò lo sguardo.
Le lacrime cominciarono a scendergli lungo le pieghe del viso. In silenzio. «I debiti…», mormorò, quasi incomprensibile. «Malidittu vizio…volevano solo spaventarlo… io… io gli dissi dov’era…». Un singhiozzo gli spezzò la frase. «Mai… mai, pinsavo ca’…»
Alzò finalmente gli occhi su Mimmo.
Due pozze di dolore infinito.
«Ti giuro, Mimmo, ti giuro sulla Madonna Nera. Avissi datu a vita mia… animali… e poi…chiru rumuri…» Peppino si coprì il volto con le mani, scosso da singhiozzi violenti. «L’hanno accisu come nu’ cane…»
«Cu’ è stato?», chiese Mimmo, la voce gelida.
Peppino scosse la testa con forza, terrorizzato. «No, Mimmo! No! Su morti! …u’ capo è morto chiù di dieci anni fa, dopo tanta galera… nun serve. Lassa stare. Ti prego.»
«E u’ registratore? Chi l’ha nascosto ‘nda cisterna?»
Peppino sospirò. «Io… Io … Era la prova. Su’ turnato e l’ho nascosto lì dentro, … pinsai che forse nu’ juorno…» La voce gli morì in un sussurro.
Mimmo lo guardò.
Quel vecchio piegato in due dalla colpa e dal rimorso. Aveva vissuto quasi cinquant’anni all’inferno. Aveva tradito e custodito la prova del suo tradimento. Incapace di distruggerla e di rivelarla.
Un uomo fallito. Distrutto.
La rabbia di Mimmo bruciava ancora. Ma c’era anche un altro sentimento: una pietà straziante. E una stanchezza che lo aveva avvilito. Aveva inseguito la verità per decenni, inconsciamente. Ora l’aveva trovata. Era atroce, dolorosa, ma era lì. Non portava niente. Solo altro dolore.
«E i documenti?», chiese Mimmo, la voce spenta.
Peppino scosse di nuovo la testa. «Boh, nun sacciu… non su stati mai truvati».
Un silenzio pesante scese tra loro.
Mimmo guardò fuori dalla finestra, verso il mare. Lo stesso mare che aveva cullato lui e Tonino da bambini. Che gli aveva dato da vivere e che si era preso tanto.
«A’ società… la Tirrenica? Chi fine ha fatto?», chiese ancora, senza voltarsi.
«È fallita n’anno dopo», mormorò Peppino.
Mimmo annuì, lentamente.
Si voltò verso lo zio. L’odio che aveva sentito salire ascoltando il nastro, il desiderio di vendetta, si era placato. Non svanito. Trasformato. In accettazione. In rassegnazione. No. Qualcosa di più profondo. Di più umano. Comprensione. Tragedia della fragilità umana.
Mimmo fece un passo verso di lui.
Peppino si ritrasse, aspettandosi uno schiaffo, una maledizione. Un improperio abbaiato sulla nuca.
Invece.
Mimmo allungò una mano. Posandola sulla spalla ossuta, tremante dello zio.
«Basta!», disse, la voce rotta. «Basta…è finita.»
Peppino sollevò lo sguardo. Incredulo. Gli occhi pieni di dolore profondo, «Mimmo… io…»
«Non dire chiù nente», lo interruppe Mimmo.
La voce spezzata. «Tonino è morto. Era ‘n uomo curaggiusu. È morto picchì animali senza core l’ammazzato. E tu… hai già pagato pi’ tutta ‘a vita. Finiscimula!»
Le lacrime di Peppino scendevano a dirotto. S’incanalavano nei solchi del viso. Erano decenni di rimorso.
«Chi… chi ni fai mo’ del registratore?», riuscì a chiedere tra i singhiozzi.
Mimmo ci pensò a lungo.
Voleva portarlo ai Carabinieri. Gridare al mondo la verità. Cercare quella giustizia tanto voluta dal fratello.
Le parole di Peppino gli risuonarono in testa. Pesanti: “Su morti! …u’ capo è morto, dopo tanta galera… nun serve”.
Guardò lo zio. Un uomo finito. La sua punizione era stata la sua stessa vita.
«U’ tengo io», disse Mimmo. «È vinuto da’ tonnara…e alla tonnara torna».
Passò un altro mese. Un mese di silenzio, ma anche di una strana, lenta pacificazione.
Mimmo lavorava al gozzo. Instancabile.
Aurora lo aiutò a finirlo. In silenzio. Senza fargli domande. Rispettava il dolore e quella sua decisione. Sapere era già abbastanza.
Una mattina Mimmo e Aurora portarono il gozzo restaurato in acqua.
Era piccola un’imbarcazione. Solida. Bella, con la nuova vernice bianca e blu.
Mimmo salì a bordo.
Il registratore a bobine avvolto in un sacco di iuta resistente, sigillato con cura.
Si spinse oltre la scogliera, dove l’acqua era blu. Profonda.
Si fermò, col motore al minimo.
Guardò il sacco.
Quelle bobine contenevano l’orrore. L’ultimo respiro di Tonino. Il suo coraggio, il suo amore per la verità. Contenevano la debolezza e l’angoscia di Peppino. Il disperato tentativo di riscatto. Contenevano una storia di sangue e di mare. Di tradimento e di amore fraterno. Una storia nascosta in bella vista, sotto gli occhi di tutti. Di ‘ndrangheta, intrallazzi, mal giustizia e verità nascoste.
Verità che diventano troppo pesanti per i vivi.
Troppo.
Col tempo si fanno veleno. Tossiche.
Tonino aveva lottato a lungo per quelle verità. Aveva denunciato, urlato, cercato di coinvolgere le persone che se ne stavano ad annuire silenziose, col capo chino e lo sguardo assente. Fino alla fine.
Mimmo la verità l’aveva trovata, per caso, e ora aveva scelto la pace.
Aveva deciso di seppellire tutto nell’unico posto che più gli apparteneva.
Il mare.
Avrebbe conservato il ricordo. Dentro. Per sé.
Un gesto lento.
Calò il sacco di iuta nell’acqua profonda.
Lo guardò affondare. Diventare un’ombra e poi scomparire.
Aurora lo attendeva sulla banchina.
Guardò verso Marcedusa. Il molo. Le case basse. La costa.
Si sentiva anche da lì.
Il respiro della tonnara.
