Il re e il niente. Oliver Tallec e la “demolizione del Tutto”

Recensione di Filomena Gagliardi. In copertina: “Il re e il niente” di Olivier Tallec, traduzione di Maria Pia Secciani, edizioni Clichy Firenze, 2023
Anche il mio libraio me lo ha detto quando l’ho ritirato in cassa che “Il re e il niente” era molto bello e che in generale il suo autore, scrittore e illustratore, è un artista molto interessante nell’attuale panorama internazionale del settore.
Da parte mia, avevo subito il fascino di un post di una psicoterapeuta, Maria Chiara Gritti, che seguo su Facebook e della quale ho letto tutti i libri: quindi mi fido. E la mia fiducia è stata ben ripagata sotto tutti i punti di vista. Innanzitutto per il contenuto e per il significato dell’albo che appare controintuitivo. Di solito, infatti, l’uomo occidentale si è sempre posto la domanda: “perché c’è l’Essere anziché il Nulla?”.
I Greci hanno preferito la strada dell’Essere a partire da Parmenide: eppure nel mondo greco non sono mancati pensatori “nichilisti”, come i Sofisti. Il loro pensiero, nel V secolo a.C., supporta la tragedia. In generale comunque i Greci, anche se in linea di principio non negarono logicamente il Nulla, da un punto di vista etico soffrirono molto la tragicità della sorte dell’uomo, destinato dopo la morte al Nulla.
Del resto, chi fra gli eroi riesca ad accedere al mondo dei morti, non fa altro che sperimentare il nulla delle anime che incontra: tale è, ad esempio, il caso di Ulisse quando scende negli Inferi nel canto XI dell’Odissea, alla cui lettura rimando il destinatario di questa recensione.
Invece il re del nostro Tallec: “aveva tutto”; a lui non “mancava quasi niente”; “ O meglio, /gli mancava il Niente”
Tale mancanza, quasi ossimorica e paradossale (di solito ci manca sempre qualcosa, proprio perché temiamo il Nulla), nasce al sovrano da un dato esperienziale: proprio vedendo che ha tutto, sorge in lui l’esigenza di ciò che non ha, che in questo caso è l’opposto del Tutto, ovvero il Niente per l’appunto.
Inizia pertanto, induttivamente, a cercare di capire dove possa trovare il Nulla: ma anche questa domanda è, sostanzialmente mal posta, e lo è alla luce del pensiero aristotelico: non può esserci un dove per il Nulla, perché ciò che ha un dove non può essere il Nulla; anche il poco è qualcosa: ergo il Nulla non è una nozione quantitativa, tantoché persino il deserto non può essere il luogo del nulla: “In realtà, però, in questi luoghi c’è sempre un inutile cactus/in un angolo, una nuvola che rovina tutto, o un frammento di roccia. Ma ancora non c’era traccia del Niente”.
Reperire il niente, dunque, non è un’operazione fisica consistente nel rimpicciolire gli enti fino ad annientarli, come fossero gli atomi democritei o epicurei
L’indagine relativa al Niente segue un procedimento costante all’interno della storia: il sire intuisce dove possa raggiungere il Niente, compie lo sforzo necessario per trovarlo, ma non ci riesce.
Solo alla fine comprende che la sua operazione, per essere vincente, deve consistere invece in un salto, in qualcosa di inedito e rivoluzionario, nell’ impiego di parametri e procedimenti totalmente diversi: egli deve togliere tutto ciò che ha e non invece ridurlo di volta in volta: il niente è la demolizione del tutto. Solo questo libera e restituisce lo spazio, o meglio, quella regione indefinita che i Greci chiamerebbero Chora.
Nel testo l’inchiesta del Niente non è motivata: non si dice perché il re lo desideri e apparentemente il libro potrebbe sembrare solo una “scusa” per fare della pura filosofia ontologica (e non ci sarebbe comunque alcunché di male). Ma io credo che l’interpretazione spetti a ciascun lettore: si può restare sul versante speculativo e si può accedere ad una lettura psicologica della trama, come un monito teso a sentenziare che l’accumulo ci soffoca, non ci dà spazio per respirare, per far posto alle cose nuove che potremmo accogliere nella nostra vita o semplicemente anche alla possibilità, del tutto lecita e anche sana talvolta, di restarcene spiaggiati, almeno per un po’, nella nostra regione di comfort, senza niente alla spalle o davanti, se non noi stessi e la nostra ombra: “Ora c’era davvero molto spazio per il Niente”: così si conclude la favola con l’immagine del nostro “eroe”, nudo, che guarda davanti a sé, verso un orizzonte libero, sgombro, nullo. Ma forse da questo Niente può rinascere il tutto?
A ciascuno l’ardua sentenza e anche la Speranza che forse, anche dopo il peggiore dei lutti, qualcosa di bello ed inedito possa attenderci. Non riesco a commentare le immagini del libro che sono bellissime e che si sforzano anch’esse di ricalcare e riprodurre, per quanto possibile, sua maestà il Nulla.