I funghi neri
Racconto e foto di Andrea Scagliarini
Quando ho acceso la luce è saltato il contatore. Sono rimasta al buio, in silenzio. Ho acceso la torcia del cellulare e ho trovato l’appartamento pieno d’acqua, i soffitti ricoperti di macchie, i muri deformati dall’umidità, pieni di escrescenze e di muffa nera. Un odore di marcio mi tagliava il fiato. Sentivo il respiro della muffa. Mi sembrava di entrare nei Piombi di Venezia invece era il patrimonio immobiliare che mio padre e mia madre mi avevano lasciato. Un’abitazione situata al fondo di una strada stretta, priva di uscita e di parcheggio, inerpicata su una collina scura e inospitale. E in quel momento, su quel mammellone di terra, le stanze disabitate e gonfie come una vescica, sembravano fissarmi come se fossi un ratto in una fogna.
Era stata la casa estiva dei miei genitori anziani, ma la detestavo. Dalle finestre non si vedeva la Côte, ma si sentivano i rumori delle navi. I cani abbaiavano di notte, i chirotteri volteggiavano sui lampioni, le zanzare si infilavano nelle camere mentre le spiagge si estendevano lontane. Ricordavo i soprammobili, le tende di pizzo, i cuscini sbiaditi, le sedie di legno scuro, le sculture africane, i quadri e le litografie ingiallite.
Mi sono seduta sul letto umido e mi sono messa a piangere. Piangevo per me stessa, per la mia vita, per quello che avevo trovato. Sentivo che l’acqua penetrava dappertutto. Scorreva rumorosa come una cataratta attraverso gli interstizi dei soffitti, nelle intercapedini dei muri, negli intonaci delle pareti. Quando fuoriusciva dalle fessure e dalle crepe dei muri lasciava una scia verde, unta come un’alga viscosa. Sentivo gli occhi di qualcuno che mi osservava dalle tenebre. Nel bagno, tra le maioliche, ho scorto dei funghi neri. Li ho recisi e sul palmo della mano sembravano molluschi strappati da una conchiglia. Ho deciso di cucinarli. Li ho esaminati mentre sfrigolavano nell’olio bollente sulla superficie della padella. Assaggiati, sapevano di fiori appassiti.
Mi sono svegliata disorientata, ancora vestita, sudavo e non capivo perché. Nelle orecchie risuonava il rumore delle gocce che cadevano, nelle narici un odore acre e disgustoso. Mi bruciava la gola. Sono rimasta sveglia fino all’alba. Ho avuto paura che la muffa mi penetrasse nei polmoni e potesse germogliare come la macchia verde nel corridoio o la grande chiazza gialla che si allargava e gravava minacciosa sopra il mio letto. «E se un giorno il soffitto si aprisse?». Così aveva vaticinato il mio vicino di casa di nome Marcel quando gli ho mostrato che cosa avevo trovato la notte precedente. Erano accorsi altri inquilini incuriositi dalle voci, dal rumore battente dell’acqua. Sono entrati tutti insieme come in una processione silenziosa nel giorno dei defunti. Sulle scale vi erano altri inquilini, figure sconosciute che apparivano e scomparivano come fantasmi. Anziani, malati, curiosi.
Alcuni commentavano sottovoce per non farsi capire, altri mi raccontavano di liti con i vicini, di denunce, di sfratti. Mi sentivo la scheggia di un mondo guasto, di un sistema che mi masticava e mi sputava per terra. Due donne anziane erano entrate nella mia camera da letto. Avevano il fazzoletto in testa e un rosario in mano. Avevano aperto gli armadi, i cassetti e annusavano l’aria. Non mi aspettavo un simile corteggio di persone sconosciute. Mi sembrava il ricevimento di una cerimonia funebre. Avrei voluto offrire qualcosa, una bevanda, un caffè, mentre tutti guardavano spaventati verso l’alto. Avevo deciso di suonare alla porta di Monsieur Chardon, proprietario dell’appartamento al piano di sopra, in cerca di una spiegazione, di una soluzione, di una via di salvezza.
Un uomo anziano con gli occhi luciferini e l’apparecchio acustico mi aveva urlato di andare via, aveva detto che ero una sconosciuta e una povera pazza. Prima che richiudesse l’uscio avevo notato come la sua casa fosse priva di colori e sbiadita come una vecchia Polaroid. Anche lui sembrava il soggetto di una vecchia foto. L’indomani, tutti mi guardavano con commiserazione. Alcuni mi stringevano la mano in maniera forte e decisa, altri mi parlavano troppo veloce, ma fingevo di capire e annuivo con un movimento nervoso del capo. Di sera, ho contattato les sapeurs pompiers in cerca d’aiuto. Gentili e pazienti avevano ascoltato il mio francese da Principe De Curtis e mi avevano spiegato che non sarebbero intervenuti e mai avrebbero inviato una squadra sul posto. Uscita in strada, attesi il buio e decisi di dormire in macchina in un parcheggio vuoto lungo il mare. Vi era un’aria di tempesta e nessuno mi avrebbe notata.
Nei giorni successivi, ogni pomeriggio, cominciai a frequentare la grande Bibliothèque Pierre Menard. Cinque piani, riscaldata, silenziosa, luminosa, accogliente. Sulla mia tessera scaduta vi era stampato La bibliothèque est un monde clos, ouvert sur le monde. Circondata da libri, da parole, da storie, ma incapace di concentrarmi, pensavo al mio appartamento, al mio passato, al mio futuro. Mi sentivo persa, sola, inutile. Seduta al tavolo, presi in mano una matita. Forse scrivere mi avrebbe aiutato a capire cosa stesse succedendo. Ma le parole non uscivano. Qualche volta mi addormentavo e mi svegliava la sirena della chiusura.
Adoravo quella biblioteca pubblica con i bagni spaziosi e profumati come quelli di un albergo di lusso dove avrei potuto lavarmi senza essere notata dalla donna nera delle pulizie che un giorno mi aveva cacciato come una indesiderabile barbona. Avevo deciso di abitare lì per mesi interi in attesa di un idraulico locale che ogni giorno fissava un appuntamento e ogni giorno non si presentava. Richiamavo, la linea era staccata. Facevo un bilancio dei danni subiti, contando con le dita. Un giorno verranno i periti e mi chiederanno le ricevute degli oggetti danneggiati, ma io non le ho mai possedute e i miei genitori defunti non torneranno per aiutarmi.
Ogni sera, andavo a mangiare vicino al porto. Entravo in un bistrot con l’insegna spenta, lontano dal traffico e dalle grandi barche. Trovavo il mio tavolo apparecchiato e il cuoco pieno di tatuaggi di mostri marini mi teneva sempre qualcosa da parte come fossi diventata una mendicante indigente. Benché facesse freddo – il riscaldamento era sempre rotto – ero la benvenuta finché non ho trovato la serranda abbassata con il cartello A vendre.
Oggi, terminato il temporale, sono ritornata a piedi verso la casa. Ho immaginato di camminare scalza come una santa medievale. Sull’asfalto scorrevano rivoli d’acqua e la terra della collina sembrava ridotta a fango. Mi sono guardata intorno, il cielo era cupo e i luoghi non mi apparivano più familiari. Tra gli arbusti si scorgeva il profilo nascosto del mare. Ma era trascorso troppo tempo. Ormai, la mia casa come la ricordavo non c’era più. Non potevo più vantare alcun diritto. Durante la mia assenza, qualcuno l’aveva occupata. Le finestre erano aperte e le luci erano accese. Ho lanciato le chiavi in un cespuglio di sterpi perché nel caos della mia mente, su quella collina scura, la mia casa allagata e quel mostro pieno di muffa verde e funghi neri non erano mai esistiti.
Chi è Andrea Scagliarini?
Andrea Scagliarini pensa di essere un musicista indipendente invece fa l’insegnante in un quartiere difficile di una grande città. I suoi testi sono apparsi o appariranno a breve sulle riviste letterarie Narrandom, Racconticon, Pastrengo, Enne 2, Nabu, e Fuori Asse.