Perché mi cercate?

Perché mi cercate?

Racconto di Giuseppe Bella. Foto di Martino Ciano

“Perché mi cercate?”
(Vangelo dell’infanzia di Tommaso 19,3)

 

Un viale di periferia battuto dal vento. È tempo di Natale ma non se ne colgono i segni. L’aria non è tenera; ogni cosa, qui, raggela e respinge. I platani stormiscono lungo i marciapiedi in cui nessuno, a quest’ora del tramonto, passeggia. Un incrocio. A semaforo rosso, un gruppo di giovani magrebini sciama incontro alle macchine ferme. Confuso in mezzo a loro c’è Nicola. Una mano sporge da un finestrino serrando un biglietto da cinquanta tra le dita, Nicola le allunga furtivo una piccola busta, afferra i soldi poi con un salto all’indietro ripara sul marciapiede.

Il vento divenne più insistente. Egli strinse le spalle nel gesto di proteggersi, palpò le buste contenute nelle tasche del giaccone, per valutarne la quantità rimanente. Lasciò scivolare lo sguardo sulla nuova, duplice fila di vetture formatasi al semaforo, e a mano a mano più serrata e lunga, intento a intercettare il segno convenuto, tre lampeggi di fari in rapida sequenza. La fronda del platano più vicino si agitò in un greve fruscio, tra i rami balenò un raggio del sole morente. La fitta alla retina gli fece stringere gli occhi; quando li ebbe riaperti, da lì a un istante, vide il bambino.

Era, su una bici, fermo ai piedi dell’albero; doveva avere intorno a sei anni perché, per tenersi in equilibrio, era dovuto smontare di sella e porsi a cavalcioni sul tubo del telaio. Il bambino guardava verso di lui con insistenza; aveva in mano un’arancia per metà sbucciata, e un’intera sporta pendeva dal manubrio. Nicola fu colto dall’inquietudine. Aveva forse notato i suoi maneggi? “Te la faccio vedere io, brutto stronzetto” disse tra sé serrando i denti; e prendendo una veloce rincorsa raggiunse il bambino, che, quasi travolto dalla sua furia, tuttavia conservava un’aria mite e sorridente.

Al colmo della rabbia, Nicola interpretò come un segno di sfida quella calma con cui il moccioso fronteggiava il suo assalto; lo afferrò quindi per le spalle e lo scosse brutalmente, biascicando: “Te lo do io, oggi, un motivo per piangere…” e gli assestò una sberla in pieno volto. Il bambino non gridò, rimase fermo, si massaggiava la guancia tutta rossa guardando Nicola con espressione smarrita e triste.

Aveva capelli neri e lisci, e gli occhi, anch’essi neri, erano colmi di dolore. Nicola sollevò un’altra volta la mano, ma quello sguardo… C’era in quegli occhi qualcosa che pungeva, una spina bruciante. Il braccio gli si irrigidì poco prima di abbattersi. Si limitò a strattonare il bambino ingiungendogli di andarsene, altrimenti… E mimò l’atto di stringerlo al collo. Tornò quindi sui propri passi crollando la testa; dopo alcuni metri si voltò indietro; il bambino era scomparso. Fece spallucce immaginandolo nascosto, con la sua bici, dietro un tronco; e si posizionò al suo solito posto.

Quella sera non riuscì a liberarsi da un vago senso di malessere. Aveva liquidato sua madre con poche frasi brusche e quindi, saltando la cena, si era rannicchiato sotto le coperte. Dormì male. Si svegliò di soprassalto. Tentò di nuovo il sonno, ma i pensieri fuggivano da ogni parte e nel centro della sua mente baluginava qualcosa di stinto, di indistinto, di spettrale – qualcosa come i muri scabri di una cella.

Appena fu giorno si vestì rapidamente e raggiunse sua madre in cucina, dov’era una soffusa penombra nella quale brillavano come stelle domestiche le luci tremolanti di un esiguo presepe, con figurine di plastica e un’erbetta ingiallita; a ridosso della mangiatoia la minuscola culla era vuota. Fu colpito dal pensiero che a differenza del passato mancavano, a guarnire il presepe, le arance e i mandarini – arance come quelle del bambino che aveva schiaffeggiato. Sua madre appariva in ansia. “Che hai?” gli chiese, mentre indugiava con lo sguardo intorno ai suoi occhi, dove egli stesso percepiva una tensione molesta. Le andò vicino; non se la sentì tuttavia di abbracciarla.

Sfumò la voce a un sussurro: “Scusami…” e si voltò dall’altra parte. La vecchia lo scrutò attraverso la penombra. Lui senza salutare, a occhi bassi, uscì di casa. Al solito bar trovò della gente. Vittorio, al bancone, puliva con lo straccio; appena si accorse di lui gli fece un cenno. “È già arrivato?” chiese Nicola. Il barista ammiccò in direzione di una porta occultata da una tenda viola, spessa e pesante. Varcò la soglia. L’ambiente era angusto e saturo di fumo. C’era Rino e accanto a lui due uomini. Uno gli era del tutto sconosciuto, ma nell’altro credette di riconoscere un giovane finanziere. Aveva l’apparenza di una trappola: stava per scappare, ubbidendo al suo impulso, quando si avvide che l’atmosfera era tranquilla; tutti fumavano e sorseggiavano del liquore. Rino schiacciò la sua sigaretta nel portacenere, strizzò gli occhi come colpiti da una goccia agra e lo invitò a sedere.

Gli altri due si alzarono e, in silenzio, lo sconosciuto tornò in sala mentre l’altro, il finanziere, uscì da una porticina secondaria che si apriva su un vicolo. Prima di andarsene, aveva fissato il viso di Nicola come a memorizzarne i connotati. Egli sedette al tavolo, rifiutando di servirsi. Rino gli disse: “Da domani, torni a scuola; prima che comincino le vacanze”. Sorrise di un sorriso becero, tutto da un lato, con il labbro sottile che arcuandosi formava onde rugose, fin sotto agli occhi, che restavano freddi e indagatori.

Nicola si agitò sulla sedia; sapeva che in ogni parola di Rino si celava sempre un’insidia, e ogni sua frase mirava a un inganno. Ma si controllò, atteggiandosi a un’aria di attesa. Rino parve apprezzare, e annuì compiaciuto. Disse: “Lì sulla strada sei proprio sprecato…”. Nicola si schermì o fece finta di schermirsi con modestia, poi commentò in tono di sollievo: “E così il mio esilio sta per finire… Non posso crederci”.

Era stato condannato a spacciare in quel punto del viale ventoso e deprimente dove le macchine sfrecciavano e non c’erano incontri ma solitudini che si sfioravano ostili; e tuttavia sarebbe potuto finire anche peggio, magari lasciato a marcire crivellato di colpi in qualche canto, e questo per avere fatto la cresta su venti buste; forse era stato Rino in persona a graziarlo. Questi riprese: “C’è qualche pulcino, ma possiamo creare un vivaio in quella scuola media, sai, la Ferretti. Penso che tu possa fare mamma chioccia meglio di tutti quanti”. Sorseggiò dal bicchiere e tirò una boccata; sulle sue labbra correva un sorriso insinuante. “D’accordo” rispose Nicola e fece per alzarsi.

Ma Rino lo trattenne per un braccio e riempì un bicchiere di grappa, glielo porse e alzando il proprio propose un brindisi. “Da vecchi amici” commentò “che si lasciano ogni malinteso alle spalle…”. Furono definiti i dettagli. Rino lo aveva poi salutato con due baci sulle guance. Per l’alcol a digiuno, Nicola percepiva incerti e barcollanti i propri passi, e i colori delle cose intorno assumevano una lucentezza straniante. Dalla soglia del bar intravide qualcuno in bicicletta guizzare in mezzo al traffico. L’emozione fu così forte che le gambe quasi gli cedettero.

Si rese d’un tratto conto che dalla sera prima non faceva che invocare un nuovo incontro con il bambino, il bambino preso a schiaffi, il bambino dallo sguardo triste, i cui occhi bruciavano nella sua mente. Si lanciò a rincorrere quella bici. Non era lui. Arrestò affannato la propria corsa, deluso. Il giorno dopo, dovette prima rifornirsi di roba, poi si posizionò molto per tempo davanti alla Ferretti, bighellonando con fare disinvolto avanti e indietro lungo il marciapiede, attento in realtà al sopraggiungere di Gino, un ragazzetto, che in cambio di alcune dosi gli avrebbe segnalato i compagni della cui disponibilità personalmente era certo.

Non stava bene, era ansioso e sudava, senza esserci caldo; piuttosto, la brezza di quei giorni si era rafforzata e adesso le strade erano spazzate da un vento gelido. I primi ragazzini scendevano dalle auto applicandosi lo zaino a tracolla, e subito si aggruppavano tra loro, ridevano e saltellavano dal freddo. Cosa avrebbe pensato di lui il bambino se lo avesse visto qui, accosto a questi ragazzini, le cui risate vibravano ancora dei suoni dell’infanzia, davanti a questa scuola dove i suoi passi avevano la cadenza circospetta di un lupo miserabile…

Avrebbe forse pianto. Per lui. Per il male che da lui sorgeva. Provò il desiderio di averlo vicino. “Salvami” si sorprese a mormorare tra sé e sé, senza volerlo. Si accorse che giungeva Gino, quel ragazzetto. Era corpulento e impacciato e appariva più grande dell’età che aveva; iscritto da ripetente alla terza media, era fornito di una furbizia grossolana, e accompagnava i suoi modi con una curva di perfidia sempre impressa sulle labbra.

Gino attraversò la strada con alcuni saltelli goffi e presolo in disparte gli sussurrò che, per quel giorno, doveva accontentarsi di agganciare solo quei tre ragazzini, che avevano ognuno in tasca venti euro – e li indicò che si dimenavano schiamazzando in un gruppo di coetanei. Poi allungò la mano in attesa di ricevere la sua parte. Serrava gli occhi, certo per proteggerli dal vento: ma così davano al suo viso un aspetto cattivo. E quel sorriso untuoso: insopportabile. Nicola non seppe trattenersi.

Agguantò Gino per un orecchio, e mentre il ragazzo si torceva dal dolore, gli disse in tono minaccioso: “Vattene via, va’”. Quindi allontanandolo da sé con un gesto di ripulsa, si allontanò avvolto da una raffica di vento. In un punto non lontano della strada, nascosto nell’incavo di un portone, il giovane finanziere aveva assistito all’intera scena, e non appena Nicola gli mostrò le spalle, si staccò dal suo rifugio e con l’abilità del segugio si mise alle sue calcagna.

Nicola camminò a lungo per strade caotiche di traffico. Sperava di imbattersi nel bambino. Invocava l’apparire dei suoi occhi. Nelle loro profondità la salvezza. Alle sue spalle, nel frattempo, confuso nella folla, il finanziere portava il cellulare all’orecchio: “Sì, Rino… È come pensavi. Sì, certo: so cosa fare…”.

Era quasi sera, ormai. Nicola si accorse di essere giunto in una zona dove le case si diradavano e la campagna mostrava le sue avvisaglie; si fermò, sopraffatto dalla stanchezza. Si guardò intorno. Intravide con la coda dell’occhio una figura che per sottrarsi al suo sguardo si riparava dietro un angolo di muro. Imboccò il sentiero che gli si apriva davanti. Sapeva di essere inseguito e correva a perdifiato.

Notò un edificio solitario, piccolo, squadrato, i muri scrostati e ricoperti di licheni, il tetto sormontato da una croce. Nicola smorzò la corsa, e noncurante del fatto che l’inseguitore lo avrebbe così agguantato, si accostò alla cappella. Una targa avvertiva che era dedicata a Nostra Madre del Tramonto. La porta, di vecchi assi di abete, era chiusa da un fragile lucchetto. Lo tirò via senza sforzo.

C’era dentro un’umida penombra. Il pavimento era cosparso di polvere, foglie e frasche insinuate dal vento di quei giorni. Il tabernacolo era di legno grezzo, con i battenti spalancati. Su una mensola, in un vasetto di terracotta, rosseggiavano dei ciclamini, alcune lampade votive spandevano una luce fioca. L’affresco raffigurava una tenera madonna i cui tratti, stinti i colori dell’incarnato, sfumavano nel blu dello sfondo. Teneva per mano il suo bambino e entrambi si dirigevano verso un punto del paesaggio già immerso nel buio della sera, mentre il sole, dal suo sepolcro, emetteva l’ultima raggiera del suo splendore.

Le due figure erano prese di tre quarti e la madonna abbassava sul figlio uno sguardo amorevole con un sorriso incoraggiante, come a lenirne la paura della notte; ma anziché ricambiare lo sguardo della madre, il bambino, torcendo il collo, si rivolgeva all’osservatore con occhi malinconici, intonati al giorno che finisce, gli stessi occhi del bambino preso a schiaffi. Nicola si piegò sui ginocchi, sussurrando: “Vieni, ti prego. Salvami…”. Si udì uno schiocco soffocato sovrastare i sibili del vento.

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