Purgatorio di Ilaria Palomba

Recensione di Gianfranco Cefalì. In copertina: “Purgatorio” di Ilaria Palomba, Alter Ego edizioni, 2025
Uno specchio. Un riflesso. Uno specchio, sempre lo stesso, uno, due, tre, mille, duemila, infiniti riflessi. Il riflesso è reale? Esiste l’immagine o è una visione? Perché ogni riflesso è bugiardo, ogni riflesso mente, spudoratamente, perché non è oggettivo, ogni riflesso è il riflesso di qualcosa, ogni riflesso è condizionato, marcato, segnato dallo sguardo, uno sguardo non scevro da una moltitudine di essenze, di speranze, di illusioni, di vita, di morte, di tutto, di niente, ogni sguardo è filtrato dal nostro sguardo, e il nostro sguardo è attraversato da una soggettività, da una serie di affluenti di soggettività che non sempre riescono ad arrivare a confluire nel grande fiume dell’esistenza.
Abbiamo tutti un profilo migliore, uno peggiore, una visione frontale, una d’insieme, e sarà di volta in volta diverso, solo il migliore cercherà la controprova nel resto dei riflessi del mondo, gli altri patiranno la funambolica scelta delle scelte, delle milioni di scelte, e se il migliore avrà visibilità in tutti gli specchi e i riflessi del mondo, da un’anonima vetrina sporca a una sala illuminata a uno specchio di acqua chiarissima, gli altri scorci della nostra esistenza visiva saranno debellati come malattia.
Ma di cosa sono fatti i riflessi? Sono fatti di sostanza, di corpo, di piaghe, di tangibile desiderio e paura, di scottature superficiali e profonde, sono fatti di bellezza suadente e vertigine del bello. Poi, poi abbiamo l’altro riflesso, quello morale, etico, quello solipsista, il riflesso della nostra anima, delle nostre divergenze, il riflesso che nascondiamo, che celiamo dietro i sorrisi falsi, dietro la bramosia, dietro un corpo, sono i riflessi umorali delle ambizioni, delle aspettative, della realtà che ci ingloba, che ci mastica e ci sputa come fossimo velenosi, riflessi che vorrebbero scappare, dileguarsi e invece restano lì, insieme a noi, dandoci battaglia.
E quando questi due riflessi, quello materiale e quello spirituale, si uniscono in una forsennata e barbarica lotta contro un io diventato sé, diventato forse un noi, allora, forse, siamo spacciati. Ma noi, in realtà, siamo nati condannati, siamo nati già con una pena inflitta, quella di stare al mondo, che sarà per noi purgatorio, una violentissima terra mediana che ci vedrà sempre come esseri dimidiati tra l’assoluto e la salvezza, la speranza e l’illusione, la realtà e l’immaginazione, tra la fame e la fama, tra la gloria e la caduta, tra la vita e la morte.
Purgatorio, che come Ilaria Palomba ci suggerisce, non è solo quello fisico, non è solo il cercare di riprendere le parvenze di una vita anteriore, di ristabilire un contatto, un nesso con le proprie parti di un corpo sfasciato da un volo dal quarto piano, ma è soprattutto un luogo dell’entroterra della nostra mente, un luogo dove sostiamo in attesa, forse di una rinascita, forse di un nuovo inizio, forse non siamo in attesa di nulla, forse siamo soli e vorremmo che qualcuno ci trovi, ci cerchi, ci chiami, vorremmo davvero che qualcuno urlasse il nostro nome, in modo tale da poterlo sentire dall’altra parte del nostro universo.
E sarebbe facile dire che esiste un purgatorio terrestre, fatto di forme e sostanza, di materiali di scarto e dolore indicibile, un purgatorio fatto di cedimenti, di crolli e sfumature che non sfumano ma rimangono indelebili, e poi l’altro purgatorio, quello dell’anima falciata, distrutta e arrogante, distruttiva, perennemente in lotta con l’essere umano, quel purgatorio fatto di accuse, di silenzi, di abbandoni, di lotte in intestini marci e putrefatti, di esseri non umani troppo umani, e visioni, passioni, incertezze, un purgatorio personalissimo e che abbiamo paura di raccontare, e sarebbe facile allora dire così, sarebbe facile continuare con le solite storie, e invece no, perché arriva l’arte, arrivano le parole, arriva un flusso lucidissimo e crudo, arriva come parziale salvagente la scrittura.
E no, nessuno si salva con la scrittura, mettiamocelo bene in testa, marchiamo bene questo concetto nelle nostre menti labili. Arrivano le parole, che hanno il magico potere, non della redenzione, e neanche la si cerca, ma il potere è quello del racconto, del farsi voce, del darsi completamente senza arroganza, senza presunzione, senza stratagemmi inutili e bugie. E per quante parole potrei scrivere, pensare, immaginare, per quanti neologismi potrei creare, per quanti significati e significanti concepire e cambiare, per quanti segni potrei incidere, per quante frasi potrei strutturare, destrutturare, non riuscirei mai a restituire la potenza di questo scritto.
Ilaria Palomba scrive un memoir bellissimo, senza mezzi termini, un libro in cui bisogna sospendere l’incredulità e non per facilitarne la lettura, ma per approfondirla, per riuscire a cogliere tutte le sfumature spoglie da qualsiasi pregiudizio, perché è importante saper cogliere il non detto, il sottaciuto, e accostarli a tutte le parole che vengono scritte.
L’autrice padroneggia la scrittura in modo esemplare, oltre alla forza vitale che traspare in ogni parola, ci troveremo davanti a un’opera densa, lirica, allucinata, poetica, in cui andare avanti non sarà dato dal voyeurismo gretto e impudico, no, sarà la forma che conterrà il senso, e ci regalerà un libro duro e alle volte supponente, altre volte arrogante, altre volte lucido e onirico, e potremmo anche non empatizzare con la protagonista in tutta la sua visione del mondo, ma alla fine, alla fine di tutto, rimarranno le parole, parole come pesi, come allucinazioni, come mondo.
Un romanzo maturo che si caratterizza per una scrittura ispirata e letteraria, un libro che colpisce nello stomaco e nello stesso tempo riesce a carezzarci con le parole. Ilaria Palomba si dimostra un’autrice davvero brava, che riesce a usare la lingua in modo perfetto e non si lascia trascinare dall’esterno, dal lato più bieco del mercato, per coccolare il lettore e metterlo a suo agio.
Un libro che ha bisogno di un lungo respiro per essere letto, avremo bisogno di una lunga immissione di aria, dovremo farne scorta, perché potrebbe anche lasciarci senza respiro. Riprendere aria, alla fine del libro, e tornare a respirare, sarà bellissimo. In fondo, il libro e la scrittura di Ilaria Palomba sono come una magnifica Wunderkammer, dove troveremo l’incanto che ci farà stupire delle stranezze, delle bellezze, degli artifici, e ci saranno anche la mostruosità, la deformità, gli orrori che ci faranno spaventare, indietreggiare, schermare, ma rimarrà sempre una camera delle meraviglie.