Immacolata: una fuga dalla miseria

Immacolata: una fuga dalla miseria

“Immacolata: una fuga dalla miseria” è un racconto di Adalgisa Gianella. In copertina una foto fornita dall’autrice

Immacolata il venti del mese finiva i soldi.
Abitava in un trilocale con un mutuo di cinquecentomila lire, lasciatole da un’amica che a quarant’anni se n’era partita per l’America con i cugini a fare fortuna. L’amica Clelia, che dalla nave in poi non aveva più sentito, ci voleva portare anche lei al continente, ma Immacolata re cos gross teneva paura e pensava all’America come nu mellòne rispett all’Italia ch’era na noce.
Alla proposta dell’amica aveva reagito scuotendo la testa e congiungendo le mani come in preghiera e da quel momento, nel quartiere, Immacolata era stata soprannominata Appaurella.

Nessuno immaginava quanto temesse di perdersi, di essere aggredita, di diventare chiù sola senza poterli spiegare a nessuno i problemi suoi, perché a malapena conosceva l’italiano e figuriamoci l’americano.
Non che a Napoli facesse chissà che vita, ma nel quartiere Vasto la rispettavano perché con i tram si girava la città luong e larg per fare qualche soldo e arrangià a vita soia.

Puliva condomini, garage, soffitte, scale, portoni, vetrate alte anche quattro metri.
Teneva tre appartamenti a via Chiaia, sei garage a Posillipo, due soffitte più la villa di 370 metri quadri degli Esposito al Vomero.
Guadagnava due milioni di lire in nero, ma cinquecento erano fissi per il mutuo se ci voleva rimanere in quell’appartamento, sennò ce l’avrebbe tolto il comune, un po’ come na prigione, che se non sconti la pena poi ti raddoppia e rischi pure la sedia elettrica.
Quattrocentomila lire li donava agli Orfani di guerra che dal 60 in poi se li sentiva fratelli perché pure a lei, a dieci anni, cu na bomba, mamma e papà c’erano addiventati angeli.

Centomila lire li metteva alle poste perché un domani chissà, ci poteva succedere qualcosa e che avrebbe fatto? Immacolata non teneva familiari. Chella sfaccìm e uèrra li aveva mandati tutti al cimitero ed erano rimasti solo Clelia e i cugini Antonio e Gionata, con i quali era cresciuta insieme come fosse na famiglia.
Le rimanenti settecentomila lire andavano in bollette, aggiusti vari, mangiare, abbonamenti al tram, medicine per il mal di schiena, emicranie, febbre e qualche vitamina per non cadere.

Appaurella invecchiava di anno in anno e il venti finiva i soldi.
Ce lo dicevano le notti senza suonn, i brividi al cuore, la paura che da nu iuorn a n’ato avrebbe fatto la fine di Giuliana puverella, seduta sulle scale dell’ingresso di palazzo Lauro, che la implorava per duecento lire, singhiozzando e mostrando la gamba offesa da una osteomielite che Immacolata non sapeva neanche che malatìa fosse.
Così dal venti in poi accendeva il lume rosso davanti ai morti suoi e pregava la Madonna e Gesù che ci arrivasse lavoro, così dava quattrocento lire pure a Giuliana.

Senza dubbio qualcuno ascoltava, perché la chiamavano i De Chirico per cucinare a una festa in onore dei Nardi, i De Filippi per pulire teatro Bellini e c’era pure don Calogero il camorrista, che la teneva in simpatia, e se lo incontrava erano altre ventimila lire.
Negli anni aveva capito che l’Ammerica forse l’avrebbe salvata, pure se grossa era, ci avrebbe dato una possibilità, ma ormai era tardi perché di Clelia neanche na traccia, chissà dov’era finita povera amica sua!

Una volta provò a fare il numero di telefono che le aveva lasciato e tu tu tuuu, nessuno rispose e si rassegnò.
Lei stava in Italia e Clelia chissà dove e ci venivano le lacrime a pensare che potesse chiedere l’elemosina a New York, in un centro commerciale, morta di freddo il venticinque dicembre, sconfortata e senza soldi.
Quante volte con i pensieri tristi e pesanti si era immaginata la morte come na cosa bella. Lo raccontavano pure in chiesa ca n’ciel Dio, quelli buoni, li premiava facendoli incontrare con i propri cari, che là nessuno lavorava o soffriva in mezzo a giardini fioriti e musiche, angeli di ogni colore.
A volte ci veniva il sospetto che ci raccontassero favole, perché se ci stava questo Dio amorevole non avrebbe permesso di farli soffrire così tanto in vita per premiarli in Paravis e mica stavano a scuola o int a nu tribunal, la vita è vita.

Questo pensava Immacolata mentre appoggiava a fatica la lunga scala d’acciaio vicino alle vetrate acculurate di palazzo De Luca. D’abitudine ci stava Salvatore il portiere che l’aiutava e controllava che non si facesse male, ma quel giorno pareva pazzo perchè lo chiamavano da tutte le parti.
Così si fece forza e salì con i panni e l’ammoniaca diluita in un secchio con un po’ d’acqua calda. Fu quando alzò le braccia che la scala aperta male non la sostenne e cadde come un frutto dall’albero sul pavimento in maiolica. Sentì una fitta dolorosissima alla gamba destra e alla vista del sangue, che colorava di rosso il grigio delle mattonelle, svenne.

Si riprese sull’ambulanza che aveva le sirene che le alluccavano in testa. Aveva la gamba destra steccata e le bende ancora macchiate di sangue attorno alle braccia. Provò a parlare, ma la paura non le fece uscire neanche una parola, il viso smagrito si riempì di lacrime perché Immacolata non voleva morire così, con il dolore severo su tutto il corpo e la testa che parev nu nid r’auciell, tanto era frastornata.
Il dottorino che le stava accanto, aveva occhi blu, pelle scura e un sorriso da reclame. Credette d’essere arrivata in paradiso perché a chill ci mancavano solo le ali.

Le disse in uno spiccato accento sudamericano:
— Non si preoccupi, è andata bene. Poteva battere la testa e invece ha solo una frattura alla gamba destra. Appena arrivati in ospedale gliela sistemiamo.
Dopo di che le fece ingoiare due grosse compresse di antidolorifico e l’ultima cosa che vide fu lo steteoscopio tale e qual a chill ru miericu suio – il dottor Ippolito – e si addormentò.
Si svegliò dentro una macchina che le faceva raggi dappertutto. Ecco in quel momento pensò fosse meglio l’America perché le bende sue sporche di sangue e qualche fazzoletto stropicciato, stazionavano nell’angolo di radiologia come un ricordo infelice e sporco.
Il gesso che le misero sulla gamba puzzava di farina e lievito, come ci stessero appriparando na pizza sulla coscia e pensò a quella che si era mangiata nel sottoscala del teatro Bellini, offerta da Eduardo comm na mort e famm la sera prima, dopo aver pulito per nove ore sala, poltrone e palco.
— Il gesso dovrà tenerlo per due mesi, poi controlleremo con una radiografia se la frattura si è ricomposta e procederemo con la rimozione. Dovrà fare qualche mese di fisioterapia prima di tornare a lavorare. Nel frattempo riposo assoluto. Letto, letto e letto.

Due mesi???
Immacolata tornò Appaurella. La testa si riempì di mali pensieri. Con i quattro risparmi alle poste non avrebbe campato neanche un mese e Rosina la vicina di ottantanni alla quale puliva casa e faceva spesa, poteva solo avvisare i suoi titolari che con la gamba ingessata ferma doveva stare e le avrebbe preparato qualcosa da mangiare. Mentre con l’ambulanza la riportavano a casa si mise a piangere perché la vita l’aveva proprio struppiata, sembrava la volesse morta di fame e solitudine. Alla solitudine si era pure abituata, alla morte no, anche se rivedere i suoi l’accalorava e se la sarebbe finita di correre qua e là come una disperata.
Gli infermieri le lasciarono una stampella d’acciaio con i manici celesti. Pazientemente riferirono che quando avrebbe cominciato a muovere i primi passi, l’avrebbe sostenuta come il braccio di un principe, poi scoppiarono a ridere e rise pure lei guardando l’accricco appoggiato al comodino, rise perché di lacrime non ne teneva più.

Dormì per dieci giorni tra un incubo e l’altro. Beveva latte e caffè la mattina e mangiava quel po’ di minestra che Rosina portava con gli occhi tristi e preoccupati, ogni benedetto giorno.

— Ti ci ho messo tante verdure, pasta e anche il parmigiano. Ti devi sostenere pure se mò si na varca senza rem.
Si cercò nella testa qualche pensiero buono e non ne trovò. Meglio dormire aspettando che tutto finisse in malora.
La cosa strana fu, nei giorni a seguire che tornata lucida, il corpo ordinava di prendere la stampella e provare a muovere qualche passo, la testa no, il respiro si accorciava, il cuore usciva dal petto e rinunciava.
Dopo un mese s’accorse che puzzava di cadavere. Non si lavava dal giorno dell’incidente e le pizzicavano le carni. Rosina non fiatava ma quel giorno le disse severamente:
— Maronna mia Immacolà, oggi arriva u mierico Ippolito pe te controllà e nun puoi stà accussì! Piglio na bacinella co sapon e ti lavo nu poc!
Non le rispose, piegò il capo e pensò a Gesù Cristo quando gli avevano pulito il sangue dal corpo martoriato. Si sentiva allo stesso modo come fosse stata crocefissa senza una ragione, perché lei non aveva salvato l’umanità.
L’anziana donna le passò la spugna in ogni dove.
— Faccio comm foss na figlia mia, nun tià scurnià!

Il sapone di marsiglia le diede odore di fresco e novità. Si sentì meglio e quasi contenta e uscita Rosina, afferrò il bastone e mosse i primi passi nella stanza.
Passò un mese e la vicina veniva solo per portarle la spesa. Si muoveva a proprio agio con il principe\stampella e aveva pure appulizzato casa. A turno i vicini e i titolari erano venuti a conferire e preoccuparsi, ma nessuno aveva lasciato soldi per sostenerla o promesso di farla lavorare nuovamente. Si chiese cosa pensassero di lei, magari che fosse fintamente puverell, che sotto u matarazz tenesse milioni di lire cumm e Paperone e invece sul comò si ammucchiavano bollette e ritardati pagamenti tra i quali il mutuo della casa in una busta verde che non teneva coraggio di aprire.

Un giorno se la vide la fine. I carabinieri che la portavano fuori di casa cu na valigetta e quattro stracci a’int. Abbandonata per strada cumm nu sacc e monnezz.
Non pregava da tanto e davanti alle fotografie dei cari e le candele ormai finite, chiese il miracolo con gli occhi allagati di lacrime. L’unica certezza che aveva era che stava iniziando la primavera e almeno sino all’autunno, poteva resistere da pezzente in mezzo alla strada, poi chissà. Mò si sentiva sorella di Giuliana la mendicante, che sicuramente ci avrebbe dato qualche consiglio.

Mancavano dieci giorni per togliere il gesso e una sera mentre cercava di infilarsi la camicia da notte le staccarono la luce. Il buio si aggrappò alla pelle come un mostro. Quella notte non dormì, aspettando che il sole entrasse e le desse un po’ di coraggio.

Si preparò a fare il discorso a Rosina quando questa si sarebbe ripresa da una brutta influenza. Le avrebbe detto che tolto il gesso sarebbe stata ospitata da una cugina e prima che arrivassero i Carabinieri, si sarebbe allontanata da chella casarella che aveva accolto benevolmente la vita fino allora.

Il nipote di Rosina si presentò puntuale alle otto di mattina per accompagnarla in ospedale. Era un uomo buono che manteveva quattro figli lavorando duramente in una fabbrica di medicinali. Aveva la macchina prestatagli dalla ditta, una cinquecento Fiat rossa che faceva allegria, quella che da due mesi Immacolata non sentiva più.

— Uno spettacolo! La frattura si è ricomposta alla grande signò, sit stat fortunat, c’avit le ossa buone. Ora togliamo il gesso e le diamo gli appuntamenti per la fisioterapia. Complimenti! Potrà riprendere il lavoro tra due mesi circa se tutto va bene.

Riempì una miriade di fogli con la mano tremante consapevole che a quegli appuntamenti non sarebbe mai andata, che sarebbe stata la strada la sua palestra. Ringraziò gentilmente tutta l’equipe e restituì la stampella che l’aveva corteggiata in quei due mesi, accompagnandola da una stanza all’altra. Le erano rimasti pochi soldi e si fece lasciare dal verduraio per acquistare patate e carote per le ultime minestre, due litri di latte e dallo stesso comprò venti candele per illuminare casa fino a che non l’avrebbe lasciata.

Pensò anche di andarsi ad affogare al mare o ingoiarsi tutti gli antidolorofici che le aveva prescritto il dottor Ippolito, buttarsi dal ponte dell’Inferno dove tante vite si erano interrotte.
In questo ci voleva coraggio e tornò Appaurella, con il tic nervoso che le faceva strizzare gli occhi e i battiti alle tempie che ci portavano la pressione a centottanta.
Entrò in casa cercando di non fare rumore. Non voleva che la vicina la tempestasse di domande alle quali avrebbe dovuto rispondere con delle bugie. Acchiappò il calendario e segnò con la penna rossa il 27 aprile, giorno nel quale l’avrebbe fatta finita. L’idea del ponte diventò un pensiero fisso.
Stava sul letto quando sentì bussare alla porta. Teneva la gamba a riposo perché aveva cominciato a farle male per lo sforzo e la osservava come fosse qualcosa che non le apparteneva. Una gamba malata che le aveva inguaiat tutt quant.

— Uè Rosì che succere?
— T’agg ritirat na raccomandata ch’è arrivat quann stavi alla visita. A proposit comm va?
— Stong buon, nun te preoccupà. Poi ti racconto.

Intanto alla vista della busta bianca le era salito il sangue in testa. Se lo sentiva che la sfrattavano da casa sua e non voleva aprirla quella busta mentre i crampi allo stomaco la sturtiavano.

Lo fece alle dieci di sera. La candela si era quasi consumata e per aprire la busta quasi la bruciò. Il cuore le balzò nel petto come fa il pettirosso alla prima neve, perché oltre a notaio Risi, il nome Clelia pensò di averlo sognato. Si addormentò alle tre dopo averla letta almeno quindici volte. Addolorata e piangente, pecchè l’amica soia era morta e ci lasciava tutti i suoi averi.

Una casa più un negozio di souvenir a Miami e un capitale di ventimila dollari. Clelia ci aveva fatto fortuna in America ma c’era pure morta cu n’attacc e core. Pensò Immacolata ch’era stata la nostalgia, quann piens tropp a terra tua pur se ci stann i denari, perché se dicono che non fanno la felicità sarà ovèro.
L’amica nun se l’era scurdata a lei e ci aveva appreparat na sorpresa. L’aveva salvata dalla strada, dal suicidio, dalla vita scommuòssa, il dolore e le fatiche. Clelia ci aveva fatto nu miracul e allora pecchè tutti sti rènare non ci davano gioia?

Pecchè a malincunìa nun leva ‘e riebbete – la malinconia non toglie i debiti – pensò Immacolata e con quella ci avrebbe vissuto fino alla morte.

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