Non regalate orsacchiotti agli sconosciuti

“Non regalate orsacchiotti agli sconosciuti” è un racconto di Daniela Grandinetti. In copertina una foto scattata e rielaborata dall’autrice
«Non posso, davvero non posso accettarlo.»
«È così che ringrazi per i regali?»
«Ma questo non è un regalo!»
«Per me lo è e tu lo stai rifiutando!»
Lo ammetto, in testa girava un’espressione che non osavo proferire: “ma sei scemo?”, ma come si fa a ferire un ragazzo così tenero, così dolce…. ragazzo poi! Per quel che ricordo non era più tanto un ragazzo. Aveva 27 anni o giù di lì. Era quasi un uomo, anzi, senza quasi.
Già la settimana precedente ero rimasta perplessa davanti al garzone del fioraio…. no, garzone del fioraio è brutto, però fa tanto film francese, sì, lo so che garçon è cameriere e non c’entra niente, ma il suono in compenso fa molto Parigi e già li vedi i chioschi sulle piazzette all’uscita del metrò con tutti quei fiori di campo dai colori bellissimi, giallo, viola, arancione, rosa. Ti richiamano subito la fisarmonica e la voce di Juliette Greco che intona Sous le ciel de Paris e ti vedi volteggiare in un vestito leggero a maniche corte a fiori minuscoli che svolazza mentre il tuo compagno ti stringe alla vita con presa sicura e a passo di danza girate tutt’intorno alla piazza che è umida di una pioggerellina che sulla pelle è benefica, ballate in mezzo alla gente, voi non li vedete, ma loro muovono la testa a ritmo seguendo la musica e i passi, e sorridono, sorridono, partecipi, compiaciuti….. no, aspetta, non correre, torna indietro.
Era garzone appunto, non garçon. E garzone se mai ricorda il commesso malpagato, il ragazzo di bottega della salumeria di Sor Mario a Tiburtina che fa le consegne a domicilio e odora di mortadella.
Ecco. Aveva sbagliato tutto. Se m’avesse mandato, che so, un panino con la mortadella, di quella rosa, sottile, profumata, con i pistacchi, a me non sarebbero venuti in mente tutti quei pensieri scemi su Parigi che avevano fatto sì che guardassi il ragazzo del fioraio (che poi magari era proprio il fioraio in persona, che ne so?) in modo strampalato da fargli dire:
«È lei M.N.? perché se è lei, questi sono suoi.»
“Questi” era un mazzone di rose rosse, non me lo ricordo quante fossero, ma erano tante. Un mazzone appunto.
Ora, se mi mandi un mazzone di rose rosse, altro che Juliette Greco e la visione romantica di Parigi, a me vengono in mente le vene gonfie del collo di Massimo Ranieri che con piglio virile va dicendo rose rosse per te ho comprato stasera e il mio cuore lo sa cosa voglio da te.
A parte il fatto che il tuo cuore sappia cosa vuole da me, non significa affatto che il mio voglia la stessa cosa, anzi non mi pare proprio, ma quella canzone dice anche: d’amore non si muore.
E allora se già dichiari in partenza che il tuo non sarà mai un amore per sempre e nonostante tutto, che me le mandi a fare tutte ste’ rose?
«Signorina ha capito o no che queste rose sono per lei?»
Presi il mazzo come se fossero carboni ardenti e richiusi la porta. Magari avrei dovuto dargli una mancia, ma secondo me quello era il fioraio in persona, mica si dà la mancia al padrone che oltretutto co sto’ mazzone di rose oggi s’è fatto la giornata.
C’era una bustina bianca con il mio nome tra le rose, discreta, timida, sembrava avesse timore a farsi notare. La apro e dentro c’era un foglio scritto a mano. Una poesia. Bella, per quanto ricordi. Ma è un ricordo vago. Lui scriveva poesie, me le aveva fatte leggere qualche volta, ma quella era proprio per me, l’aveva scritta per me.
Se uno vi dedica una poesia, cioè la pensa, la sente, la scrive, la corregge, la rende unica e poi l’appiccica a un mazzone di rose e ve la manda, spendendo anche dei soldi, beh… vuol dire che nella testa di quella persona siete importanti. La cosa quanto meno vi lusinga e voi quella poesia la mettete in un luogo sicuro dove rimarrà – comunque vada – per sempre. Anche perché che ne sapete voi che magari quello un giorno diventerà un poeta famoso e voi, zacchete!, la tirerete fuori e diventate all’improvviso la musa che lo ha ispirato, l’artefice della sua arte?
Voi, non io.
Io non lo so dove l’ho messa. L’ho persa.
E comunque per quel che ne so non è diventato un poeta famoso, credo sia diventato qualcosa tipo un chimico di qualche casa farmaceutica. Un avvelenatore a mezzo di farmaci. Quindi avevo visto giusto.
Insomma, già ero perplessa per le rose, figuriamoci quando quella mattina questo delicato ragazzo biondo cenere (biondo cenere è quello che assomiglia al castano? Perché se no non è quello giusto, tanto per intendersi) mi piomba alle spalle mentre ero intenta sulle mie sudate carte di un libro in biblioteca e mi dice:
«Puoi interrompere un attimo?»
Mi mette in mano le chiavi di un cassetto di quelli dove era obbligatorio lasciare le borse quando entravi in biblioteca e mi fa:
«Vai ad aprire il numero 35, c’è una cosa per te.»
A dire il vero il numero l’ho inventato, non posso ricordare il numero di un cassetto di più di vent’anni fa, no anzi, 30 (ma com’è che il tempo passa così in fretta che mi sbaglio sempre?)
Insomma, ci vado. Lui mi segue.
Io sono curiosa. Lui è impaziente.
Quando lo apro vedo un orsacchiotto, chiaro, seduto, composto, come se fosse lì tranquillo e ubbidiente ad aspettare.
«Cos’è?» Chiedo
«Non lo vedi?» Risponde.
Lo vedevo sì, ma non era una cosa nuova, bello era bello, ma era vecchiotto.
«È mio, è stato il mio amico d’infanzia.»
Mi aveva parlato della sua infanzia difficile, aveva avuto non ricordo bene che malattia, una per cui non poteva correre o affaticarsi, quindi giocava poco con altri bambini. Una cosa triste insomma. Però dell’orsacchiotto non sapevo niente.
«Non si regalano cose così.» Dissi.
«E perché?» Replicò.
«Perché è una cosa importante, un ricordo, un giorno ci ripenserai e lo rivorrai indietro e magari io chissà dove sarò. Te ne pentiresti.» Questo chiamasi mettere le mani avanti.
«Per me è una cosa importante e se voglio regalartelo vuol dire qualcosa.»
«Appunto.» Replicai.
Mi stava davanti, così tenero, con lo sguardo quasi supplichevole. Sentivo che stava cominciando ad offendersi. In fondo mi stava facendo dono di un pezzo della sua vita e io cosa stavo facendo? Lo stavo spingendo a razionalizzare un gesto emotivo del quale avrebbe potuto pentirsi. Avrebbe, ma mica era detto. In fondo che diritto avevo io di azzerare quell’illusione? Se gli piaceva regalarmelo, e sia.
Presi l’orsacchiotto, che era davvero bello. Conservato benissimo, doveva averne avuto molta cura.
Chissà dove sarà finito adesso. Non lo so, come la poesia, non ne ho la minima idea. Magari in una discarica.